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Giorgia Meloni? Perché non farà la fine di chi ha sbancato prima di lei

Pietro Senaldi
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«A strong democracy», l'Italia è una democrazia forte. Così gli Usa, per bocca del sottosegretario di Stato Anthony Blinken, il loro numero uno diplomatico, hanno salutato la vittoria del centrodestra. Sono bastate due parole per smentire la retorica propagandistica di Letta e della sinistra tutta, che ha puntato la campagna elettorale sul solo argomento che la Meloni al governo avrebbe gettato discredito sul Paese, fino a renderlo ingovernabile. Invece no, a Washington «il governo più a destra d'Italia dopo quello di Mussolini», come poco sobriamente ha titolato il progressista New York Times, va benissimo. Quello che infatti importa Oltreoceano dei Paesi alleati è che essi diano garanzia di stabilità e fedeltà al mondo occidentale e il governo di centrodestra, con la maggioranza solida che si ritrova e l'atlantismo di Giorgia, non desta preoccupazioni in merito. Alla sinistra quindi non resta che rosicare e archiviare almeno per un po' il rodato progetto di ribaltare l'esito del voto con giochi di palazzo. Prima i dem devono liquidare Letta e capire cosa vogliono fare da grandi, se tornare a flirtare con M5S, sempre che Conte li rivoglia, o dannarsi con Calenda e Renzi - ma ne resterà solo uno - per provare a fare quello che non riescono da trent' anni: diventare un partito progressista normale, europeo, per scomodare un aggettivo sempre di moda al Nazareno.

FRUTTI DURATURI
Nel frattempo la Meloni, con delicatezza femminile, sparge sale sulle ferite dei rivali: «È stata una campagna elettorale violenta, che abbiamo subito per responsabilità altrui. Ora la situazione del Paese richiede rispetto reciproco e contributo di tutti, se saremo chiamati a governare lo faremo per tutti, con l'obiettivo di unire questo popolo». Un discorso ecumenico e di principi che è una lezione alla sinistra e un manifesto programmatico e dove il messaggio più importante è quello che si legge tra le righe. La sinistra ha già battezzato la vittoria di Fdi come quella del terzo populismo, intendendo con quello grillino e salviniano i primi due, ma non ha capito nulla. A parte il fatto che, per completezza nel pantheon bisognerebbe mettere anche il Pd di Renzi, che per vincere le Europee del 2014 regalò, senza averli, ottanta euro al mese a dieci milioni di italiani, la vittoria della Meloni risponde a logiche diverse da quelle dei rosa, dei gialli e dei verdi - infatti nei numeri è meno imponente-, e per questo la leader sta seguendo una strategia diversa dai predecessori, che potrebbe dare frutti più duraturi.

Il discorso della vittoria ha lasciato intendere che Giorgia non farà gli errori che hanno condannato M5S e Renzi. I primi, ebbri per il 33% raggiunto, non capirono che la maggior parte dei loro consensi arrivava dal voto di protesta e non da grillni convinti. Pertanto hanno governato come se tutta l'Italia fosse pentastellata, badando solo a reddito, manette e bonus e perdendo un blocco alla volta più della metà degli elettori. Renzi fece l'errore opposto, ignorò la potente e ideologica base piddina e pensò solo ad allargare il partito ai moderati, lanciando un'opa sui forzisti. Il risultato è che, da segretario, si è segato da solo le gambe che reggevano il suo potere. Salvini, in misura minore, ha fatto entrambi gli errori, spingendo poco sui valori fondanti della Lega, come l'autonomia, e coccolando la base su argomenti che non riusciva a spiegare alla restante maggioranza degli italiani, come alcune giuste battaglie sul Covid e certe posizioni internazionali, tra cui la contrarietà alle sanzioni a Putin.

TONI BASSI
Che strategia seguirà quindi la leader del centrodestra? Prima di tutto cercherà di non perdersi gli alleati e abbassare i toni del conflitto con la sinistra, relegata con suo grande scorno all'opposizione. La parola d'ordine è basso profilo. Non a caso la vittoria, storica e fino a solo un anno fa impensabile, non è stata festeggiata da Fdi con bandiere tricolori e inni, come per esempio fece perfino l'Ulivo del compassato Prodi. Il progetto è entrare nella macchina del potere in punta di piedi, dolcemente ma senza mai fare retromarcia, cambiando le cose un pezzo alla volta, quasi naturalmente, per necessità. Da qui la mano tesa alla sinistra sulle riforme, con la precisazione che, se si avranno i numeri, si faranno comunque, le carezze e i ringraziamenti agli alleati superati nell'urna, per i quali non mancherà la gloria al governo, e i buoni rapporti costruiti nel tempo con il governo uscente, al quale la leader di Fdi punta di fare impostare la prossima finanziaria, così da trovare un tecnico gradito al Quirinale per il ministero dell'Economia, il più importante, non solo per il Colle ma per l'Europa. Ma attenti, la coerenza è la dote che ha portato la Meloni alle soglie di Palazzo Chigi e che tutti i suoi elettori le riconoscono, e per questo la leader non tradirà mai la sua base e i suoi principi. Sui temi etici, la famiglia, i valori antichi, Giorgia non cambierà linea. Come non cambierà la posizione sull'Europa: bisogna starci ma per contare non per prendere la comanda e ringraziare per gli schiaffi in faccia. 

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