Rivalutare l'interesse nazionale: non si tratta di scegliere tra destra e sinistra
C'è una formula che sta prendendo piedi in questi giorni e che sembra dare la cifra di quello che sarà il governo di centrodestra prossimo futuro. È una formula antica e consolidata, che appartiene alle democrazie occidentali che tutte si sono forgiate attorna a quella tipica "invenzione" moderna che è lo Stato-Nazione. Una formula che però nell'Italia repubblicana non ha avuto mai successo, è anzi stata guardata dai più con timore e sospetto. Parlo dell'interesse nazionale, che è da tutelare prima di ogni altro bene e in ogni sede come ha detto Giorgia Meloni nella sua prima importante uscita post-elettorale, alla convention di Coldiretti a Milano. Quella formula fra l'altro, essendosi spesso riferiti in passato anche Salvini e Berlusconi, potrebbe essere anche un forte collante e un comun denominatore. Perché la cultura politica dell'interesse nazionale in Italia non abbia mai attecchito lo si spiega certo anche per la confusione che di essa si è fatta col nazionalismo estremo che, più o meno a ragione, si dice essere stato proprio del fascismo. Ma lo spiega soprattutto il predominio nel nostro Paese, nel secondo dopoguerra, di due ideologie molto diverse ma accomunate da uno stesso afflato universalista: la comunista e la cattolica, che noi abbiamo conosciuto sotto la perversa formula del "cattocomunismo".
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Beninteso, mentre i comunisti dovevano avere per forza un riferimento primo nell'Internazionale o Comintern (dominato dall'Unione sovietica); il cattolicesimo politico avrebbe potuto scegliere due vie: o quella liberale fondata sulle istituzioni intermedie della famiglia e dello Stato nazionale, oppure quella democratico-solidaristica ispirata dai Dossetti e dai La Pira che fu propria della DC dopo la sconfitta di Alcide De Gasperi. La proposta di Berlinguer di un "compromesso storico" fra i due partiti di massa che dominavano la prima Repubblica fu l'atto finale di un compromesso ideale. Già solo parlare di Patria veniva visto come qualcosa di "fascista", o comunque di particolaristico e immorale. Dimenticando, fra l'altro, che l'origine di quel concetto non era certo a destra, ma nella tradizione repubblicana, e persino giacobina, della Rivoluzione francese. Chi tentò di ovviare a questa tara della nostra democrazia fu un tecnico prestato alla politica, e non certo di destra: Carlo Azeglio Ciampi. Ma erano maturi i tempi affinché l'interesse nazionale diventasse una bussola.
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Certa stupida acquiescenza negli anni dei nostri governi all'Unione europea si inseriscono anche in questa vera e propria remora di origine ideologica che ha sempre avuto la classe politica italiana. La bussola dell'interesse nazionale può anche servire a reimpostare in modo corretto i nostri rapporti con Bruxelles, al di là di ogni pulsione autarchica e isolazionista ma anche di ogni titubanza a mettere sul tavolo i nostri interessi legittimi per mediarli con quelli altrui. Che agli Stati europei ci leghi un "destino comune", è indubbio: abbiamo una storia comune ma anche comuni valori. Però è proprio quella storia che ci dice che la libertà è maturata in questa parte di mondo non attraverso un processo di omogeneizzazione dei costumi e della mentalità, ma attraverso un confronto spesso aspro fra le diversità e specificità dei popoli che la abitano. Non c'è libertà se non nella diversità. È chiaro che allora il processo degli Stati europei verso una unone politica debba partire dai territori e non dal centro, dal basso verso l'alto in un rapporto di sussidiarietà che nel garantire le specificità nazionali, assicuri veramente quella libertà che è nel nostro DNA. La storia è colma di "astuzie", come diceva Hegel. Chissà che non tcchi proprio al nostro Paese, e ad un governo che la propaganda dipinge come antieuropeista, indicare la rotta giusta un po' a tutti.
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