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25 aprile, una festa divisiva e ancora ideologica

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Francesco Carella
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Meglio essere chiari da subito: il 25 aprile, così come è stato presentato e manipolato finora non potrà mai diventare la festa di tutti gli italiani. Infatti, quella data continua a conservare - come sta accadendo in queste ore con la strumentalizzazione di un'intervista a Ignazio La Russa- un carattere profondamente divisivo al punto da giungere ad attribuire al presidente del Senato frasi che non sono mai state pronunciate. Stupirsi sarebbe un esercizio inutile.

È molto meglio cercare di capire. Illuminanti, a tal proposito, sono le osservazioni dello storico Roberto Chiarini quando scrive- in "25 aprile, la competizione politica sulla memoria"- che in Italia «come non c'è al presente un solo impegno dell'agenda politica su cui si possa registrare un comportamento consensuale, così non vi è alle spalle un solo passaggio storico di rilievo su cui si sia consolidata una valutazione condivisa. Memorie separate su tutto: su Risorgimento e fascismo, su epoca liberale ed età repubblicana, sulle guerre combattute e sulla politica estera. Figuriamoci sulla Seconda guerra mondiale che di tutta la nostra storia è stato il passaggio forse più carico di lacerazioni e propositi radicalmente alternativi». Alla realizzazione di un tale fossato, a partire dal 1945, contribuisce non poco la riduzione, da parte della sinistra, del fascismo da fatto storico definitivamente concluso ad entità ideologica costantemente presente come minaccia nel panorama politico italiano. Di qui l'invito ad una continua "vigilanza democratica" per evitare il ritorno della dittatura.
 

 

LA MINACCIA CHE INCOMBE
Si tratta di una narrazione funzionale alla strategia messa in atto dal Pci fin dai primi anni del Dopoguerra. Quel partito non potendo trovare sul terreno della democrazia liberale la sua legittimazione per evidenti ragioni sia di dottrina che per collocazione internazionale- utilizza l'antifascismo come strumento ideologico per affermare la sua credibilità democratica. Infatti, il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti- aprendo a Bari nel 1952 un convegno su Antonio Gramsci - ribadisce che «in una società capitalistica la tentazione di una svolta reazionaria è sempre dietro l'angolo, il fascismo nella nostra vita nazionale è qualcosa di sempre presente come pericolo e minaccia che incombe sopra di noi». Il corollario di una tesi siffatta fu che antifascismo e democrazia divennero per mano della sinistra sinonimi, mentre l'anticomunismo fu presentato come l'anticamera del fascismo. Il danno compiuto con una così palese manipolazione della realtà è stato tale che il 25 aprile non è mai riuscito a diventare patrimonio comune e il simbolo della riconquistata libertà. Nel 1975, a ridosso della ricorrenza, Vittorio Foa scriveva sul Manifesto che «attraverso la Democrazia cristiana come attraverso il Partito liberale di Benedetto Croce, la borghesia si fece antifascista per assicurare la continuità del vecchio Stato. Per questo non è decente celebrare con loro il trentennale della Liberazione». Alcuni anni or sono lo storico Piero Melograni propose di chiudere con il passato, trasformando il 25 aprile in una grande «festa nazionale della democrazia». Non se ne fece nulla. Si tratta ancora oggi di una operazione difficile da compiere in un Paese in cui "il passato continua a non volere passare". 

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