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La Russa, Tarchi: "Alla sinistra non resta che l'odio"

Pietro De Leo
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Il governo Meloni ha incassato la fiducia in Parlamento ed ha acceso i motori, innescando un fattore di novità nello scenario politico italiano. Libero analizza tutto questo con il professor Marco Tarchi, ordinario di scienze politiche all'Università di Firenze, saggista mai allineato con il pensiero del politicamente corretto.

 

 

 

Professor Tarchi, partiamo dall'inquadramento programmatico esposto da Giorgia Meloni alle Camere. Che destra di governo è questa?
«Per quanto riguarda le idee che la ispirano, una destra conservatrice con alcuni influssi nazionalisti - anche se Meloni preferisce definirli patriottici.
Riguardo al modo di procedere, direi più moderata che riformista. Atteggiamento che si spiega con la preoccupazione di non ostacolare il cammino di legittimazione del governo agli occhi dei partner europei e in genere internazionali».

C'è un passaggio particolarmente interessante di quel discorso, ossia il ruolo dell'Italia in Europa. Il governo ha un chiaro mandato popolare. Cosa deve fare secondo lei per intestarsi un'iniziativa rifondativa di un'Unione che, palesemente, non funziona?
«Prima di diventare presidente del Consiglio, Meloni prometteva drastici cambiamenti dei meccanismi dell'Unione europea, prospettando un netto ridimensionamento dei margini dei suoi condizionamenti sulle politiche nazionali. Adesso credo che si accontenterebbe di una maggiore considerazione delle ragioni dell'Italia nelle occasioni in cui si dovranno prendere decisioni che riguardino l'insieme dei paesi membri. Lo scenario confederale su cui ha a lungo insistito mi pare difficilmente raggiungibile».

L'impressione che si ricava, osservando lo scenario, è che mentre il governo è forte, godendo di una solida maggioranza, permangono ancora fragilità nel campo dei partiti, di centrodestra come di centrosinistra. Secondo lei può essere l'occasione storica per ricostruire il sistema-partito devastato nel '92?
«È difficile che questo possa avvenire in un momento in cui, come mostrano i sondaggi, Fratelli d'Italia sembra progressivamente fagocitare ampie aree di consenso degli alleati, in primo luogo Forza Italia, che - se la tendenza dovesse continuare - rischierebbe una rottura interna. E anche nel centrosinistra la programmata ennesima rifondazione del Pd è tutt' altro che alle porte, e la concorrenza del M5S, che peraltro non è affatto, geneticamente, un partito di sinistra, è un ostacolo serio al rilancio di quel partito».

C'è un dato di fatto: mentre il centrodestra muove di nuovo i primi passi al governo, la sinistra rimane impantanata nei cliché ideologici.
«Non c'è stata una seria riflessione, a sinistra, sulle evoluzioni del campo avversario nell'arco degli ultimi trent' anni. Si continuano ad usare argomenti polemici che avevano forse un senso all'indomani di Tangentopoli. Tutto quello che è avvenuto dopo è liquidato come se fosse un mascheramento o una messinscena. In queste condizioni, ci si rivolge soltanto ad una sezione ristretta dell'opinione pubblica, rimasta legata a vecchi stereotipi».

 

 

 

A proposito di fascismo, nella settimana che si è chiusa cadeva il centenario della Marcia su Roma. La società italiana, secondo lei, ha reciso definitivamente i legami con quella fase o permangono delle scorie?
«Se si eccettuano risibili e ridicole microscopiche minoranze, all'attualità del fascismo - come mito o come spauracchio - non crede ormai più nessuno. Chi potrebbe sognarsi, nel 2022, di mettere in piedi un regime autoritario? Ciò non significa che non si possano avere giudizi diversi, e anche opposti, su ciò che il fascismo è stato e ha significato nella storia italiana. Un fenomeno così complesso non può essere ridotto a caricature nostalgiche o denigratorie».

C'è una parola che torna in voga queste settimane, evocata specialmente dal neo presidente Ignazio La Russa, ossia "pacificazione" sui drammi del passato. Dal fascismo, appunto, agli anni di Piombo. È possibile?

«Entro certi limiti, sì. Ovvero, è inutile insistere su una impossibile "memoria condivisa" degli eventi che, fra l'altro, hanno sanguinosamente spaccato l'Italia e gli italiani nei due anni della guerra civile, ma si potrebbe finalmente considerare l'epoca fascista come una pagina di storia passata e guardare al futuro. Ma per riuscirci occorrerebbe che, dopo le nostalgie del fascismo, si accantonassero anche quello di un antifascismo "militante" che ormai parla sì e no ad un quarto del paese».

Sempre il presidente del Senato ha affermato che non è disposto a celebrare un 25 Aprile in quei cortei che si svolgono abitualmente. Fa bene?

«Sì, perché, come è accaduto a Bossi nel 1994, la sua presenza sarebbe giudicata una provocazione dall'ultrasinistra - e probabilmente da una parte della sinistra "ufficiale" - e causerebbe disordini e scontri. Attizzando ulteriormente gli animi già piuttosto caldi di coloro che pensano di usare per un quinquennio l'antifascismo come un'arma contro il governo Meloni».

Da docente universitario, come legge gli scontri dei collettivi a La Sapienza per impedire una conferenza promossa dagli studenti di destra... l'occupazione a scienze politiche, così come quella di alcune scuole superiori?

«Come un fenomeno triste e prevedibile, perché all'ultrasinistra non rimane più che questo antifascismo eterno e mitologico per farsi notare ed esistere. L'odio è sempre un efficace carburante delle mobilitazioni politiche».

L'opposizione è divisa in tre tronconi, ma siamo ancora nell'immediato post-elezioni. C'è qualche presupposto, secondo lei, per un percorso di riunificazione?

«No. Non c'è un retroterra culturale comune e le strategie sono diverse. Il progressismo del Pd, il populismo "moderato" del M5S e la vocazione centrista del Terzo Polo non possono coniugarsi se non in rare e limitate occasioni».

Il Pd ha iniziato la sua ennesima fase di autocoscienza. Dove lo porterà secondo lei?

«Sono curioso di capirlo, perché per adesso non vedo alcuna seria ipotesi di autoriforma. Senza la quale il futuro di quel partito mi appare grigio». 

 

 

 

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