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Pd, Elly Schlein, "perché la candidano": un terremoto politico

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Pietro Senaldi
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A Bologna c'è un manichino a testa in giù, ed è quello di Giorgia Meloni, appeso fuori da un supermercato del centro dai collettivi di sinistra. E poi c’è un manichino a testa in su, ed è quello di Elly Schlein, la vicepresidente dell’Emilia Romagna strappata alla sua Regione da Enrico Letta, che l’ha catapultata alla Camera come figurina rara nell’album dem, in quanto donna, e da quelle parti sono poche in Parlamento, e per di più omosessuale militante. Benché non possa dirlo, pena pregiudicare le già scarse possibilità di diventare il prossimo segretario del Pd, la signora gioca la parte del candidato di rottura al non imminente congresso dem, ma tutti sanno che è invece la prima scelta del solito vecchio gruppo dirigente. Schlein si vanta di essere sopravvissuta nel partito «per aver sempre rifiutato logiche di cooptazione», quasi non fosse invece potentemente benedetta da Letta, Franceschini e forse perfino Orlando, persuasi che la mossa giusta sia cambiare la facciata della sala di comando per poter mantenerne intatto l’interno, con in plancia una figura che garantisca il non cambiamento e riferisca a loro. Pauperista ma snob, sensibile ai diritti civili del proprio genere più che a quelli politici dei cittadini, con visione internazionale ma agenda di quartiere, dotata di forti istinti individuali che riesce a far duettare perfettamente con la voce del padrone, conformista finanche nelle proprie diversità,lontana dalla cosiddetta base quanto è vicina ai vertici, la Schlein è una sorta di Quartapelle riuscita.

CINISMO
Infatti, a differenza della deputata milanese,lei è sufficientemente cinica per dire cose in cui non crede, in quanto non ha bisogno di credere a balle e fesserie per proferirle con voce categorica. Siccome è una dem doc, benché ancora non sia iscritta al partito, Elly non la racconta mai tutta dritta e così ieri ha fatto un passo avanti verso la candidatura, ma solomezzo.Prima di lanciarsi bisogna aderire alla fase costituente perché «non serve» dice lei «una frettolosa corsa a cambiare il gruppo dirigente bensì una riflessione profonda», quasi quanto il coma in cui rischia di cadere il partito se insisterà a seguire i tempi morti di Letta. Ieri perfino l’ex super segretario Massimo D’Alema ha suggerito ai compagni di darsi una mossa, ma Schlein ha replicato che «non si può discutere di nomi se prima non si parla di giustizia sociale e climatica». Peccato che sui due treni suddetti sia già salito Conte, lasciando il Pd fermo sulla banchina ferroviaria, un po’ come il Prodi imitato da Corrado Guzzanti, tanti anni fa. Serve il dibattito insomma, il gioco di società preferito dagli elettori dem, che da tempo si eccitano per le primarie interne più che per le politiche nazionali.

 

 

È tempo di scegliere se correre dietro a Calenda e Renzi, recuperando l’anima moderata, o seguire M5S, sperando che al Movimento caschi qualche briciola di consenso in direzione Pd e a naso, dovesse mai capitarle di poter decidere, Schlein imboccherebbe la seconda via. E così spera il centrodestra, perché la signora è la candidata più autorevole per ammazzare definitivamente i dem, i quali, incapaci ormai di rappresentare il tutto, punterebbero su una parte, molto minoritaria, per coprire una domanda politica immensa e priva di interlocutori con i quali rapportarsi. Una spruzzata di ambientalismo, quattro libbre di reddito di cittadinanza, orgoglio arcobaleno a manetta e nessuna condanna delle nefandezze dei sinceri democratici che appendono la Meloni a testa in giù in piazza. Forza Schlein, la candidata di tutti quelli che si augurano che la destra governi peri prossimi vent’anni nonché di quelli che hanno ridotto il più importante partito della sinistra italiana a vaso di coccio tra la saccenza liberal di Calenda, le brame di potere e di rivalsa di Renzi, il populismo contraddittorio e suicida di Conte, l’europeismo bollito e di maniera della Bonino e i deliri nostalgici di Fratoianni.

 

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