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Elly Schlein, Claudio Velardi durissimo: "Ricca e borghese, non sa nulla"

Fausto Carioti
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Le analisi più lucide - spesso crudeli- sulla campagna elettorale e sulla tragedia annunciata della sinistra le ha fatte Claudio Velardi, storico dirigente del Pci, collaboratore di Massimo D'Alema all'epoca di palazzo Chigi, oggi lobbista e presidente della fondazione Ottimisti & Razionali. Erano un podcast, un appuntamento quotidiano sul web durato sino all'indomani del voto, sono diventate un gran bel libro che porta lo stesso titolo: Impressioni di settembre (Colonnese editore, pp. 196). «Se qualcuno mi chiede cosa è il Partito democratico oggi», dice Velardi a Libero con la schiettezza napoletana che lo contraddistingue, «io non so rispondere. Posso dire in poche parole di cosa parlano Conte, Renzi, Salvini e la Meloni, ma non qual è il contenuto del discorso del Pd. E se fai opposizione alla Meloni sul decreto anti-rave, cioè sui temi forti che hanno dato la vittoria alla destra, come la sicurezza, vuol dire che non hai capito nulla della politica e non conosci l'Italia».


L'impressione è che la stessa Giorgia Meloni sia un animale politico molto diverso da quello che i dirigenti della sinistra immaginavano. Si aspettavano una fascistella di periferia, comoda da inserire nei loro schemi, hanno trovato una cresciuta a pane e politica che da sovranista si sta facendo conservatrice di stampo europeo ed atlantista. E ora non sanno come prenderla.
«È così. Giorgia Meloni è una che fa politica da quando era adolescente e sa anche come misurarsi con le diverse platee di riferimento. Nasce come donna di partito, si crea il suo partito e ne fa una comunità coesa e devota alla sua leadership. Mentre gli altri leader crescevano ed esplodevano, lei si è "infrattata" un po' e quando è arrivato il momento giusto lo ha colto, anche con una certa furbizia. Ora è l'ultimo leader che abbiamo a disposizione, i suoi quasi coetanei Renzi e Salvini si sono bruciati e gli altri sono più avanti negli anni».

Come si sta comportando a palazzo Chigi?
«Da politica scafata. Ritocca il suo profilo di giorno in giorno, probabilmente deve ancora definirlo meglio. Ha fatto il primo atto, il discusso decreto sui rave, in cui ha dovuto rimarcare la dimensione identitaria sua e della coalizione, come aveva già fatto con l'elezione dei presidenti delle Camere. Poi è andata a Bruxelles parlando la lingua che bisogna parlare in Europa. Si sta dimostrando una politica a tutto tondo, sinuosa e sfuggente. Per l'opposizione è difficile inquadrarla».

Meno ideologizzata di come se la aspettavano, insomma.
«Non c'è dubbio. Quasi tutti i leader, quando escono fuori dalla loro comunità, dalla loro zona di conforto, e arrivano a governare, si de-ideologizzano. Altrimenti restano divisivi».

È la cosa giusta da fare?
«Per un leader che intende rispondere al Paese, sì. Significa, però, che sarà esposta ad un altro tipo di pericoli: quelli che arrivano dall'interno. La parte più dura verrà quando dovrà varare i provvedimenti necessari all'Italia e nel frattempo dovrà fare i conti, dentro alla coalizione o finanche nel suo partito, con chi vuole pesare di più».

Un grande classico del centrodestra italiano.
«Non solo del centrodestra. È colpa del sistema elettorale, che incentiva la creazione delle coalizioni prima del voto, ma poi, una volta che arrivi al governo, è proprio da dentro la coalizione che ti rompono i coglioni. Con un'aggravante, stavolta: la Lega è sovradimensionata e può contare su 95 parlamentari, che non corrispondono affatto all'8,8% che ha preso nelle urne. Se disponesse di una maggioranza parlamentare rispettosa dei reali rapporti di forza, Giorgia Meloni potrebbe dormire sonni tranquilli. Invece non è così. Un problema grosso».

Lei non sembra avere molta fiducia nella capacità del Pd di creare problemi al premier.
«Basta saper contare: l'opposizione non ha i numeri, non può infastidirla. I problemi le verranno dall'interno della maggioranza oppure dalla magistratura, come è sempre avvenuto in Italia».

Anche lei prevede imboscate da parte delle procure?
«Lo dico non perché io sappia qualcosa di particolare, ma perché la magistratura è il potere vero, quello che negli ultimi venticinque anni ha fatto e disfatto tutto. Vedo che già hanno iniziato, intervenendo ad orologeria su Daniela Santanchè subito dopo la sua nomina a ministro».

Nella pagina che conclude Impressioni di settembre, scritta il 26 settembre, lei scrive che il Pd «ha da tempo l'encefalogramma piatto». Ha notato qualche sussulto da allora a oggi?
«No. Anzi, quella mia opinione si è rafforzata. Ma il problema vero è un altro, ed è strutturale: la sinistra è morta. Ed è morta perché i suoi ideali hanno vinto».

Di quali ideali parla?
«La sinistra moderna è nata sulla grande idea del cosmopolitismo: siamo tutti cittadini del mondo, proletari di tutto il mondo unitevi. È successo, siamo nel mondo globale. Questi ideali si sono realizzati facendo uscire dalla fame miliardi di persone nel resto del pianeta, creando però lavoro a basso costo e sfruttamento nelle società mature. Col risultato che, se oggi la sinistra volesse difendere le categorie che un tempo la votavano, dovrebbe diventare sovranista e nazionalista».

Un enorme paradosso storico.
«Non l'unico. La sinistra ha realizzato anche uno Stato sociale che funziona, col risultato che chi è tutelato dalle pensioni e da altre garanzie non pensa ai rider e agli altri nuovi emarginati. Così la sinistra, che a parole dice di volere un nuovo modello di sviluppo e tutto il resto, dimostra, in ogni sua azione, di difendere la società in cui viviamo».

C'è la nuova e meravigliosa frontiera dei cosiddetti diritti civili.
«È l'unico settore in cui la sinistra non ha vinto del tutto, ma anche lì, ormai, ci siamo quasi. I suoi leader credono che questa battaglia possa appassionare le schiere degli emarginati e degli sfruttati, ma loro rispondono mandandola a quel paese: giustamente, visto che non li protegge. La destra riesce a presidiare meglio i territori delle marginalità: oggi la sinistra è l'establishment, la povera gente vota a destra».

Resta sempre il pacifismo, andato in scena sabato a Roma.
«A quella manifestazione "pacifinta" Giuseppe Conte è stato acclamato ed Enrico Letta si è dovuto nascondere. Una pena indicibile. Lì si è visto che l'egemonia dei Cinque Stelle sul Pd si è già realizzata».

Deduco che il sorpasso del M5S ai danni del Pd, annunciato da certi sondaggi, non la stupisce.
«Certo che quel sorpasso ha senso. Ha senso pure il ragionamento che fa una persona oggi lontanissima da me, come Massimo D'Alema: la sinistra che lui ha in mente può essere rappresentata solo dai Cinque Stelle, e può essere guidata solo da un esponente dei Cinque Stelle».

Una sinistra assistenzialista e meridionalista.
«Assistenzialista e insediata nel Mezzogiorno, certo. Ma anche con forti venature populiste e sovraniste. Se la sinistra vuole difendere gli sfruttati e i sottopagati, non può non fare discorsi di protezione territoriale. Ed è anche possibile, come chiedono alcuni, mandare a casa l'intero gruppo dirigente del Pd, perché ormai non rappresenta più nessuno. Ma se il partito vuole davvero rappresentare i nuovi sfruttati, non può prendere ad emblema uno come Carlo Cottarelli e candidarlo alla guida della Lombardia».

Lei ha consigliato al Pd di fare segretario Aboubakar Soumahoro, eletto deputato con i Verdi: lo sa che non accadrà mai, vero?
«L'ho detto come provocazione, ma almeno lui è uno che parla un linguaggio contemporaneo e sembra uscito dal mondo d'oggi. Se la sinistra vuole sopravvivere, è questo che deve fare».

Il nome pop che gira per la segreteria del Pd è invece quello di Elly Schlein. Piace molto anche a Letta. Non può essere lei la salvezza del partito?
«Tra una ragazza alquanto ricca e più che borghese e Soumahoro, che rimanda a un dato di verità, visto che viene dalla povertà, sarebbe il caso che il Pd scegliesse il secondo. Dalla biografia della Schlein mi pare evidente che lei non sappia nulla di povertà ed emarginazione. E comunque non credo che ci possa essere salvezza per il Pd».

Un partito morto, addirittura.
«Lo dico senza acrimonia: il Pd è il passato, non si riprende. Molto probabilmente farà la fine del Partito socialista francese. Tra un'offerta di sinistra populista, sovranista ed assistenzialista come quella dei Cinque Stelle, e la proposta riformista presentata da due scapocchioni come Calenda e Renzi, lo spazio per il Pd non c'è più».

Letta e gli altri non sembrano avere questa preoccupazione, visto che hanno fissato per il 12 marzo le primarie da cui dovrà uscire il nuovo segretario.
«Il mondo corre, ci sono guerre ed emergenze sociali, manca l'energia, occorre prendere scelte drammatiche, e quelli fanno il congresso a marzo. Vivono in una dimensione ultraterrena. Non ci sono i fascisti su Marte: c'è la sinistra italiana, su Marte». 

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