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Carlo Nordio, il piano della sinistra per spingerlo alle dimissioni

Fausto Carioti
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Giornali e televisioni di area progressista sono convinti di avere trovato il punto sul quale fare pressione per spaccare il governo: Carlo Nordio e il suo disegno di riforma della giustizia. Se far cadere l’esecutivo in parlamento è impossibile, anche perché lì la sinistra è messa peggio della maggioranza, fare saltare un singolo ministro, martellandolo ogni giorno, può rivelarsi più facile. Il resto verrebbe da sé: oltre a essere uno dei fiori all’occhiello della squadra di Giorgia Meloni, Nordio è il garante di una parte importante del programma, che include la revisione della Costituzione. Colpendo lui, si trasformerebbe in un’anatra zoppa colei che guida il governo con l’ambizione di «fare l’Italia o morire». Così Nordio viene dipinto in piena «solitudine», vittima del «gelo» dei Fratelli d’Italia (La Stampa); difeso da «nessuno» mentre Lega e Fdi lo «accerchiano» (Il Fatto); colpito dallo «schiaffo» di Matteo Salvini, il quale vuole smarcarsi dal suo «abbraccio mortale» (Repubblica).

 

“TRATTAMENTO MANCUSO” - Quasi cotto al punto giusto per essere sottoposto al trattamento che nell’ottobre del 1995 fece fuori il suo predecessore Filippo Mancuso. Guarda caso, un altro guardasigilli della destra liberale, proveniente dalla magistratura, il quale si era permesso di contestare il modus operandi delle procure di Milano e Palermo. L’unico ministro della repubblica italiana colpito e affondato da una mozione di sfiducia fatta apposta per lui. Ipotesi accarezzata ora dal grillino Roberto Fico, pungolato dal Fatto, che ha iniziato a raccogliere le firme per cacciare l’indesiderato: «Può andare bene anche una mozione di sfiducia individuale, ma questo va deciso dai gruppi parlamentari». La mozione non passerebbe, però costringerebbe Nordio alla difensiva e consentirebbe all’opposizione e a parte della magistratura di bersagliarlo per settimane, consegnando agli italiani l’immagine di un ministro sotto assedio.

 

PIENA FIDUCIA - Per questo, vista l’aria che tirava sui giornali di ieri, Giorgia Meloni ha deciso di intervenire subito. È andata molto oltre la semplice smentita: ha ribadito la «piena fiducia» nel ministro, ha ricordato di averlo «fortemente voluto a via Arenula» e annunciato che lo incontrerà questa settimana per definire le tappe in cui varare «le iniziative necessarie a migliorare lo stato della giustizia». Che poi sono quelle promesse nel programma elettorale della coalizione: la separazione delle carriere e la riforma del Csm in Costituzione; la riforma del processo civile e penale, per consentire dibattimenti giusti e di ragionevole durata; la riforma del diritto penale, razionalizzando le pene e rendendole certe. Sono le stesse idee che si possono leggere nei libri scritti da Nordio e che lui ha ripetuto prima delle elezioni. Lo ha fatto anche al dibattito ad Atreju nel dicembre del 2021 e alla convention milanese di Fdi dello scorso aprile, dove, sotto gli occhi della futura premier, spiegò in dettaglio la propria filosofia garantista. E pure da questo si capisce che la rappresentazione del ministro in contrasto con la presidente del consiglio e il suo partito è inventata per creare zizzania. Non solo, quando lo ha chiamato nel governo, la Meloni sapeva benissimo come la pensa l’ex magistrato in materia di garanzie, di pene e di tutto il resto, ma è proprio per queste sue idee che lo ha voluto mettere lì, pur sapendo che la tradizione liberale di Nordio non è la stessa in cui affondano le radici di Fdi, partito che dalla tradizione post-missina lei ha portato sulle posizioni tipiche del conservatorismo europeo.

 

 

NEMICO POLITICO NUMERO UNO - Assieme a Fdi, si è mossa a difesa del ministro Forza Italia, e al momento tanto basta a rendere superflua ogni considerazione sulla Lega, dove non si registra lo stesso trasporto verso Nordio. Ma è ovvio che non finisce qui. Addentato l’osso, non lo molleranno. Il guardasigilli è stato scelto come nemico politico numero uno anche perché chi lo attacca sa di avere dalla propria parte le procure potenti, quelle che fanno “sistema” con giornalisti e parlamentari. E siccome lui tira dritto, e se salta lui l’esecutivo mette un piede nella fossa, chi tiene alla sopravvivenza di quest’ultimo deve fare quadrato attorno al ministro. È quindi sulla riforma della giustizia, tanto per cambiare, che il governo si gioca la pelle. Forse la Meloni pensava anche a questo scenario quando, prima di giurare assieme ai suoi ministri, faceva sapere di non essere «ricattabile». Da nessuno, nemmeno dalle procure. 

 

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