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Governo, Alessandro Campi: "Le divisioni? Gonfiate da media e Pd"

Fausto Carioti
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«In questi primi cento giorni di governo non ci siamo annoiati e non sono mancate le tensioni all’interno della coalizione. Ma nel complesso la maggioranza ha dimostrato di essere sufficientemente solida». A tirare le somme è Alessandro Campi, studioso della destra ed ordinario di Scienza Politica all’università di Perugia, in uscita l’8 febbraio col libro “Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo” (Marsilio editore).

 

 

 

Le divergenze tra i partiti della maggioranza, ad esempio su alcuni aspetti della riforma della giustizia e dell’autonomia delle regioni, non devono preoccupare?
«Certe divergenze sono normali in un governo di coalizione. Ed è altrettanto normale che vengano enfatizzate dai singoli partiti in occasione dei diversi appuntamenti elettorali. Non renderle un problema per il governo dipende dalla capacità di Giorgia Meloni di trovare, su ogni dossier, una sintesi accettabile da tutti gli alleati. Le consiglio di prendere esempio dalla Dc, che rispettava sempre i partitini laici coi quali faceva i governi».

La stampa dipinge un governo tutt’altro che solido. È un racconto strumentale?
«C’è stata una drammatizzazione mediatica delle divisioni interne alla maggioranza. E in certi casi sì, mi è parsa un tentativo di spallata da parte delle opposizioni, nel timore che questo possa diventare un governo di legislatura. Si spiega così l’attacco al ministro Nordio per una riforma della giustizia che ancora nemmeno esiste. O quel che si è letto a commento della Giornata del Ricordo, circa la poca credibilità del centrodestra quando si tratta di combattere l’antisemitismo».

A leggere i sondaggi, che continuano a premiare il centrodestra, sono polemiche che non attecchiscono tra gli elettori.
«Simili atteggiamenti dimostrano due cose: da un lato, la difficoltà delle opposizioni a trovare temi di battaglia politicamente spendibili (l’allarme sul ritorno del fascismo non ha funzionato in campagna elettorale, figuriamoci ora); dall’altro, il divorzio crescente tra la realtà del Paese e il modo con cui essa viene raccontata da un certo mainstream giornalistico. Un divorzio che, da solo, basta a spiegare i rovesci elettorali di una sinistra che, più che fare opposizione politica, sembra inseguire i suoi fantasmi ideologici».

Al governo è mossa anche l’accusa opposta, quella di un’eccessiva prudenza, in continuità col governo Draghi.
«In politica si fa quel che si deve, a costo di rimangiarsi i proclami del giorno prima. Le campagne elettorali sono una cosa diversa dal governo di un Paese, specie nella complicatissima congiuntura che abbiamo sotto gli occhi. Oggi sempre meno si vota per i programmi, che pochi elettori leggono, e sempre più per i leader. Non comprendo dunque le accuse di incoerenza rivolte alla Meloni e alla sua maggioranza, che peraltro mi sembra stia tenendo il punto sui temi che più la caratterizzano come coalizione: presidenzialismo, riforma della giustizia in senso garantista, nuovo autonomismo regionale».

Del presidenzialismo si parla da decenni. L’ostilità del Pd è evidente. Cosa devono fare il governo e la maggioranza? Tirare dritto o cercare comunque un’intesa col principale partito d’opposizione?
«Sulle riforme istituzionali il dialogo con le minoranze parlamentari è sempre necessario. Se poi ci s’imbatte in un’opposizione solo ideologica e pregiudiziale, si ha tutto il diritto di scegliere in autonomia, anche se i due referendum su proposte di riforma della sola maggioranza, quelli del 2006 e del 2016, sono andati male per quest’ultima. L’importante, in ogni caso, è mettere sul tavolo proposte coerenti e meditate, e sul presidenzialismo questo ancora non è stato fatto. Visti i fallimenti del passato, proverei, come nelle trattative commerciali, a chiedere 100 per ottenere 70 o 80».

Fuor di metafora?
«Se non il presidenzialismo alla francese, almeno un rafforzamento sostanziale dei poteri del capo del governo sul modello del cancellierato tedesco, che bilanci l’instabilità parlamentare dei governi e provi ad evitare, con leggi di sbarramento rigorose, un eccesso di frammentazione in parlamento». I primi segnali dal terzo polo e dal M5S fanno intuire una possibile intesa sul premierato, ossia l’elezione diretta del presidente del consiglio. Può essere una soluzione? «Se ho citato il cancellierato tedesco è perché è un modello esistente e sperimentato, mentre il cosiddetto premierato, l’elezione diretta del capo del governo, non esiste da nessuna parte e non sta in piedi come proposta».

 

 

 

I partner europei hanno scoperto che la premier italiana è un’atlantista convinta, è prudente con la spesa pubblica e ha tutto l’interesse a trovare un modus vivendi con le istituzioni di Bruxelles. È una mutazione necessaria?

«Giorgia Meloni non ha mai cercato lo scontro frontale con la Ue. Di lei si sono spesso sottovalutati i rapporti internazionali e la trama di relazioni politiche costruite nel tempo. A furia di dipingerla come un outsider, capace di interloquire al massimo con Orban, gli avversari non hanno ben compreso il significato del suo riposizionamento in Europa, dal fronte populista a quello nazional-conservatore, e dei suoi stretti contatti con i repubblicani statunitensi in chiave di ortodossia euro-atlantista».

Non rischia così di perdere la la propria identità?

«Più che mettere a rischio la propria identità, credo che Meloni stia facendo un investimento molto impegnativo sul proprio futuro e su quello della destra italiana. All’interno della quale, anche nel recente passato, non sono mancate simpatie di stampo anti-occidentale, neutralista o anti-americano, che oggi però non hanno più molto senso politico e mancano di legittimità storica e culturale. Vengo culturalmente da quegli ambienti e so quanto sia difficile distaccarsi da certi convincimenti nutriti in gioventù. Alcuni degli attuali contrasti all’interno di Fdi credo abbiano a che fare proprio con questo nuovo corso, che vede Giorgia Meloni più avanti rispetto ad alcuni esponenti del suo partito».

C’è un disegno per portare i conservatori europei guidati dalla Meloni nella prossima commissione Ue, al posto dei socialisti. È un’operazione auspicabile?

«Tutto dipenderà dall’esito delle elezioni europee, naturalmente. Ma il condominio europeo tra popolari e socialisti dura ormai da troppi anni. Un’alleanza nata per difendere i valori dell’europeismo si è trasformata sempre più in una forma di spartizione scientifica delle cariche. Spezzarla non può che fare bene all’Europa, visto anche il modo con cui, nel frattempo, è cambiata la geografia elettorale nei diversi Paesi. Tra l’altro, l’alleanza tra popolari e conservatori avrebbe una sua coerenza sul piano dei valori, come l’avrebbe a sinistra quella tra socialisti, verdi e liberal».

Sarebbe la fine della Ue come la conosciamo e l’inizio di una nuova Europa, magari più rispettosa degli interessi delle singole nazioni.

«Il fatto che si parli di un accordo tra moderati e conservatori come di una possibilità concreta e normale dimostra che in Europa qualcosa è già cambiato. Il prossimo anno, specie dopo lo scandalo che ha investito il parlamento europeo, popolari e socialisti non potranno presentarsi agli elettori agitando nuovamente lo spauracchio del populismo».

In Italia, dal giorno del voto, il Pd ha perso consensi e si è visto sorpassato dei Cinque Stelle nei sondaggi. Il prossimo segretario potrà invertire il processo o stiamo assistendo alla fine del Pd?

«Il Pd delle origini, quello della vocazione maggioritaria, è scomparso per sempre. Sopravvivono solo gli apparati, che stanno cercando di riciclarsi all’ombra dei diversi candidati alla segreteria. Ciò detto, la crisi della sinistra italiana è lo specchio di quella europea. Il vento della storia ha invertito la rotta: dal globalismo al particolarismo nazionale, dal sogno della pace perpetua alla crudezza della politica di potenza, dal “fai da te” dei valori al peso delle tradizioni, a partire da quelle religiose». 

 

 

 

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