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Schlein, Antonio Socci: "Le sta sfuggendo il Pd"

Antonio Socci
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Paolo Mieli, che è un po’ la Cassazione del mondo progressista, ha emesso ieri una sentenza - in un editoriale del Corriere della sera - molto preoccupante per il Pd a guida Schlein. Dopo aver riconosciuto alla nuova segreteria- con malcelata ironia - «un bilancio più che positivo» nel dar vita a polemiche quotidiane con il centrodestra, Mieli la affonda dicendo che fa continue baruffe perché «perla sinistra sarebbe terribilmente più complicato indicare una prospettiva diversa. Ad esempio, una via credibile per tornare al governo».

La diagnosi di Mieli- che pure all’area di centrosinistra culturalmente appartiene - è impietosa: «L’attuale sinistra appare destrutturata come mai lo è stata nella sua lunga storia» e questo, «nelle rare occasioni in cui è costretta a rispondere a delle domande in pubblico, fa scivolare Schlein nei gorghi di nebbiose fumisterie che le consentono di affrontare in qualche modo l’imbarazzante situazione in cui viene a trovarsi chi deve pronunciare dei chiari ‘sì’ o dei netti ‘no’. Cosa per lei al momento impossibile». In sostanza, la Schlein sta relegando il partito in un angolo minoritario e massimalista che non ha una cultura di governo e che non avrà mai la maggioranza dei voti per governare.

 

 

 

BORGHESE DI CENTRO

D’altronde Elly Schlein è un po’ una “esterna” del Pd. Addirittura si è iscritta alla vigilia delle primarie, nel novembre 2022, per poter concorrere. Appartiene ideologicamente all’area di Articolo 1, Sinistra italiana, Verdi. Una borghese al Centro sociale. Il suo parlare è quel tipico fiume incomprensibile di formule, di “diciamo” e di slogan che caratterizzava gli interventi nelle assemblee studentesche di una volta durante l’occupazione delle scuole. Ecco perché Mieli parla di «nebbiose fumisterie» e altri, più perfidamente, hanno evocato le giocose frasi prive di senso logico di Ugo Tognazzi nel film “Amici miei” (definite con un neologismo metasemantico accolto nel vocabolario Zingarelli).
Infatti Dagospia di recente le ha dedicato uno dei suoi titoli micidiali: “Elly, di’ qualcosa... che si capisca. Le supercazzole della Schlein su termovalorizzatore, sostegno militare all’Ucraina e maternità surrogata fanno incazzare i riformisti e i cattolici del Pd”.

L’analisi di Mieli sembra sancire la fine del Pd come “partito di sistema”, partito di garanzia rispetto a interlocutori internazionali, come la Ue e l’establishment nel suo insieme, che gli ha permesso, negli ultimi dieci anni, di essere il perno di quasi tutti gli esecutivi pur non avendo mai vinto le elezioni. I dirigenti piddini sostengono che si sono fatti carico del governo per il bene del Paese, come missionari che con abnegazione stanno al potere per spirito di servizio. Gli elettori italiani hanno dato un giudizio molto diverso (una drastica bocciatura che li ha portati al minimo storico). E pure l’ex ministro greco, di sinistra, Yanis Varoufakis, ha recentemente dichiarato: «Il Pd ha fatto tanti danni all’Italia. Non ha agito da partito di sinistra e non ha agito nell’interesse degli italiani e degli europei». Ha poi aggiunto: «Elly Schlein è una mia cara amica, le auguro il meglio. Avrà un grosso problema nel gestire il partito che adesso guida perché ha ereditato tutti i problemi di quel partito». Ma con lei il Pd è diventato un’altra cosa ed è la sua ennesima trasformazione identitaria.

Dal 2007, anno della sua fondazione, si sono succeduti ben otto segretari diversi (a cui andrebbero aggiunti i reggenti) che spesso hanno dato al Pd una diversa identità. Da Walter Veltroni- che teorizzò un partito con ambizione maggioritaria costituito da eredi del Pci e della sinistra Dc - alla Schlein che è estranea a entrambe queste culture politiche e che nel 2015, dopo una prima iscrizione al Pd, ne era uscita in polemica con il segretario di allora, Matteo Renzi, da lei definito «di centro-destra». C’è stata la stagione tecnocratica di Monti e quella di Draghi. Del resto c’è stato pure un segretario come Zingaretti, che ricordava molto il Pci, e, fino al novembre scorso, l’ex democristiano Enrico Letta che aveva schierato il Pd, allo scoppio della guerra in Ucraina, su posizione ultra-atlantiste. Uno nessuno centomila. In fondo Pd potrebbe anche essere la sigla di Pirandello.

 

 

 

SIA GIALLO CHE VERDE

Ieri la Schlein ha rivelato, posando per Vogue, di avere una consulente d’immagine per il look che le ha sostituito l’eskimo con il trench e si occupa di “armocromia”, cioè della scelta dei colori da indossare. È una metafora perfetta per un partito che – dopo aver cercato di mettere insieme il rosso antico e il biancofiore - si è buttato un po’ disperatamente sul giallo e un po’ sul verde. Ogni stagione un colore diverso. Senza sapere più chi è. Non a caso il Pd della Schlein perde pezzi importanti fra i moderati e i cattolici. Dall’ex ministro Beppe Fioroni (fra i fondatori del Pd) all’ex capogruppo Andrea Marcucci, al parlamentare Enrico Borghi (e pare anche una europarlamentare). Massimo Cacciari ha sempre ripetuto che la fusione a freddo fra post-comunisti e post-democristiani non era mai avvenuta e non funzionava: «Il Pd non è un partito, è un insieme di avanzi di partito il cui unico collante è il potere. Deve resistere al governo per esistere». E ora?

 

 

 

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