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Berlusconi e l'Occidente, il suo vero piano: cosa può accadere ora

Pietro Senaldi
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«È una perdita irreparabile, un dolore grande. Era un vero amico, un saggio, un patriota». Dell’ultimo saluto di Putin a Berlusconi sarebbe fuori posto ogni lettura trasversale, che vada oltre l’aspetto umano. Tanto si è sparlato in questo anno e passa di guerra in Ucraina del rapporto tra lo zar di Mosca e quello di Arcore. Intorno allo slancio mediatore del leader di Forza Italia si è detto di tutto. In realtà, la sola cosa che lo animasse era il desiderio di pace. A lungo Berlusconi è rimasto convinto che il proprio ascendente personale nei confronti del dittatore russo fosse talmente forte da persuaderlo alla trattativa. Si è illuso, sull’amico smarrito e anche sull’Occidente. La grande patria dell’anticomunista Silvio non è alla ricerca di una soluzione senza vincitori né vinti.

Fino a pochi giorni prima di morire, il Cavaliere ha tentato di rendersi utile per quella che considerava la causa russo-ucraina, ancora animato dallo spirito di Pratica di Mare, dove mise a tavola Putin e Bush, convinto di aver posato la prima pietra miliare di una pace planetaria. Fu un capolavoro diplomatico, ma mentre Silvio pensava in grande, al lungo periodo, gli altri due commensali interpretavano l’incontro come una tregua funzionale a prendere tempo e prendersi le misure. Inconcepibile per l’ottimista, ecumenico Berlusconi, sicuro che potessero andare a braccetto in Europa la Turchia di Erdogan con l’Ungheria di Orbàn, l’Inghilterra per sempre e comunque atlantista e anti-unionista con l’asse franco-tedesco, che poi era un trattato di spartizione più che un’alleanza.

Maestro di marketing, accordi e commercio, al Cavaliere però stavolta mancava la moneta giusta per comprare la pace. Proprio la sua tenacia nell’inseguire l’accordo internazionale impossibile è rivelatrice della natura di Berlusconi, tentato solo dalle sfide proibitive e determinato, quasi ansioso, di portare tutti sempre dalla sua parte.

 

 

MINISTRO DEGLI ESTERI - Sono in tanti a essere persuasi che l’ex presidente del Consiglio abbia dato il meglio come ministro degli Esteri in incognito di tutti i suoi governi. Forse quello internazionale era il campo di gioco che lo stimolava di più, perché era il solo dove si sentiva di giocare tra i suoi pari. In Italia non aveva rivali, o almeno riteneva di non averli. Soprattutto, fin dal primo avviso di garanzia ricevuto da politico, piovutogli mentre presiedeva il G8 a Napoli, sapeva di non combattere ad armi pari. Ma all’estero cambiava tutto. Tra Bush, Putin, Blair, Chirac, la Merkel, Aznar, Lula, Jintao, Barroso e decine di altri si sentiva nel consesso a lui consono. In Italia per lui c’erano solo persone che lo amavano o lo odiavano, come ebbe a dire più volte.

E in particolare, in politica, c’erano solo i rivali, che tranne in rari casi lo trattavano come un nemico, e quelli che lui aveva beneficiato. Molti dei quali, senza rendersi conto del loro debito d’onore e sbagliando i calcoli, gli si sono rivoltati contro, finendo per lo più ridimensionati quando non nello stanzino delle scope.

Trasformatore di sogni in realtà per professione, l’ossessione di Berlusconi è sempre stata quella di portare l’Italia tra i grandi del mondo. Ha cercato di recuperare al nostro Paese la centralità planetaria persa dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine, o meglio la mutazione, della guerra fredda. Preferiva farlo con l’arma della diplomazia, ma non ha esitato a pestare i pugni sul tavolo, quando necessario. Ha lottato per portare Forza Italia nel Ppe, imponendosi a un riluttante Kohl, che non lo voleva ma è stato costretto a piegarsi dalla mole di voti azzurri raccolti a inizio millennio. In questo senso si può dire che il Cavaliere ha messo la prima pietra del centrodestra italiano anche in Europa, dove è entrato dalla porta di servizio per arrivare in pochi anni a conquistare per Forza Italia la presidenza dell’Europarlamento.

 

 

Come lascito testamentario dell’ultima intervista rilasciata prima della morte, ha indicato poi la strada da intraprendere, auspicando «una nuova maggioranza con popolari e conservatori».

SCHULZ-MERKEL-SARKÒ - La passione per il suo Paese, i suoi sforzi per tenere alto il Tricolore in Europa, dove mandò Monti, Draghi, Tajani ma anche la Bonino, chiunque, a torto o ragione, ritenesse utile alla causa, erano temuti dai rivali politici, tanto il kapò Schulz, quanto i supposti alleati, la coppia ridens Merkel-Sarkozy, il cui impegno è sempre stato mantenere l’Italia in posizione subalterna e richiedente e che per questo si sono sempre trovati meglio con la nostra sinistra. Accusato di essersi talvolta fatto anche gli affari propri in patria, in politica estera Silvio ha pagato l’eccessiva generosità e finanche la troppa efficacia. È dall’asse franco-tedesco, insofferente al fatto di non poterlo domare e irritato dall’indisponibilità del Cavaliere a piegarsi ai diktat economici di Bruxelles, che è partita la spallata che nel 2011 costrinse Silvio a dimettersi da Palazzo Chigi, per mai più ritornarvi.

L’Europa degli Stati in competizione tra loro ha sempre visto con sospetto il tentativo di Berlusconi di trovare una sintesi davvero comunitaria, industriandosi per smontare la tela che il leader italiano era capace di costruire nel mondo. I partner Ue hanno temuto sempre l’indipendenza di pensiero e le doti diplomatiche del Cavaliere, fino ad arrivare a quel suicido occidentale che è stata la guerra in Libia, avversata fino all’ultimo da Roma e alla base della nuova esplosione della bomba migratoria. I nemici lo rimproveravano di avere un feeling con i tiranni, da Gheddafi a Erdogan fino a Putin. Invece Berlusconi ha sempre avuto come faro gli Stati Uniti, i quali gli si affidarono non appena egli si paventò all’orizzonte politico, ed è sempre stato un fervente atlantista. Solo non era uomo di muri e la sua difesa dell’Occidente si basava sul sogno di estenderlo, il più a Est e il più a Sud possibile, non esportando la democrazia con le armi ma attraverso un contagio culturale ed economico. Pensava che i nemici andassero sedotti e persuasi, come potenziali soci in affari, anziché combattuti e criminalizzati. Forse il sogno era impossibile, forse l’uomo era troppo avanti e le sue ambizioni non potevano che risultare deluse, non potendosi un progetto universale realizzare sulle sole forze del Cavaliere, per quanto inesauribili. 

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