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Parlamento, rissa per la cravatta: in che mani siamo?

Pietro Senaldi
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A cosa serve il Parlamento, se non riesce a sciogliere neppure il nodo della cravatta? Uno dei mali della Seconda Repubblica è che ormai le norme che contano si fanno a colpi di decreti, il che svuota il potere legislativo delle Camere e sbilancia la tripartizione di Montesquieu a favore del governo; che se poi è di destra, scatta subito l’allarme democrazia. Eppure gli onorevoli, quando avrebbero possibilità di riscatto, passano la mano perché non vogliono guai, ed è la sola circostanza che riesce a mettere sottobraccio maggioranza e opposizione. D’altronde, come ha fatto capire Fassino nel suo show con tanto di busta paga esibita, con 4.700 euro netti al mese in busta paga più altrettanti di rimborsi vari e benefit vita natural durante, mica gli si può chiedere anche di lavorare...

 

 

Ieri Montecitorio era chiamata a decidere sul proprio onorevole dress code, cioè come ci si deve vestire quando si varca il sacro portone della politica. Fu il deputato pannelliano Roberto Cicciomessere, scomparso poco più di due mesi fa, a togliere la cravatta ai deputati, ritenendo l’obbligo, che ancora vige per i senatori, anacronistico già quasi quarant’anni fa. Di recente il fratello d’Italia Salvatore Caiata, già presidente del Potenza Calcio, aveva presentato un disegno di legge per richiudere il colletto alle camicie dei colleghi e per vietare le scarpe da tennis in Transatlantico e in Aula. Questione di destrorso ripristino della tradizione ma anche un malcelato dispetto alla segretaria del Pd, Elly Schlein, incapace di separarsi dalle calzature sportive, che riesce ad abbinare a qualsiasi mise cromatica. Sembrava tutto fatto, ma mai dare qualcosa per scontato nel nostro Parlamento.

 


Così ieri i grillini, tanto per rompere le scatole, hanno deciso che “non era decoroso” perdere tempo a parlare di decoro, con il riscaldamento climatico e la guerra ai poveri in corso e hanno minacciato battaglia contro il provvedimento. Ne è seguito un accigliato dibattito con la leghista Matone che spiegava come «il rispetto per gli elettori passa anche dall’abbigliamento», il pentastellato Ricciardi che replicava che «togliere il reddito di cittadinanza è più inelegante che girare in sandali» e il verde Zaratti che, per una volta ecumenico, sentenziava che «non è il caso di auto-fustigarsi perché tutti vestono in modo consono», senza condanne alla destra fascista, per una volta.
Tanto è bastato perché la maggioranza si impanicasse e si impiccasse alla questione cravatta: meglio non scegliere, per evitare di sembrare insensibili e di far la figura di chi si occupa solo di facezie. Ma siccome la toppa è spesso peggiore del buco, ecco la soluzione per uscire dall’impasse: lo scioglimento del nodo è stato delegato nientemeno che all’Ufficio di Presidenza, una trentina di deputati di tutti i partiti, che si riunirà e con tutta calma dipanerà la matassa «valutando l’opportunità di introdurre specifiche disposizioni volte a prevedere che l’abbigliamento dei deputati, dei dipendenti e di tutti gli altri frequentatori delle Camere sia consono alle esigenze di rispetto della dignità e del decoro dell’istituzione». Così recita il nuovo testo, privo di cenni a cravatte e calzature, approvato con 181 voti favorevoli e cento contrari nonché lo strabiliante effetto di non decidere nulla ma avere lo stesso impegnato e diviso Parlamento.

Già, perché non solo M5S, ma anche il Pd e Alleanza Verdi Sinistra hanno fatto mancare il proprio assenso. Certo, l’abbigliamento può essere ritenuto una facezia per i grillini, solitamente impegnati in cose ben più sostanziose, o per i dem, malgrado la loro segretaria paghi 300 euro l’ora una persona per suggerirle come vestirsi. Però per l’elettorato conservatore, legato al detto secondo cui l’abito fa il monaco, l’onorevole in cravatta appare rassicurante; almeno sappiamo che spende una parte dei soldi che gli diamo per far bella figura. E poi, meglio uno scemo o un imbroglione elegante piuttosto che sciatto. Ma la notizia inquietante non è che maggioranza e opposizione si dividano anche sul look. Quel che fa paura è che il Parlamento che dovrebbe riformare la giustizia, cambiare il fisco, regalarci l’autonomia, buttare lì una riforma costituzionale e magari varare il presidenzialismo, curare le piaghe della sanità ribaltando il settore non riesca ad accordarsi neppure sulle cravatte. Un italiano medio la sceglie nell’armadio in dieci secondi e se la annoda in quindici. I deputati devono prendersi le ferie prima di decidere se è il caso di mettersela oppure no. Quel che è peggio è che la faccenda, anziché semplificarsi, si aggroviglia. Ieri si poteva risolvere il tutto votando su cravatte e scarpe, la delega all’Ufficio di Presidenza della stesura del codice d’abbigliamento comporta una serie di complicazioni: le donne potranno scoprire le braccia? Quanto devono essere corte le gonne? E alti i tacchi?

 

 

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