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Medio Oriente? Per difendere la libertà serve una nuova economia

Gianclaudio Torlizzi
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L’atteso discorso di qualche giorno fa del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è stato salutato con favore da parte dei mercati. L’aver, almeno temporaneamente, scongiurato il rischio escalation ha allentato i timori di un’imminente crisi petrolifera, tanto che il prezzo del Brent è tornato in area $85, segnando un andamento invariato dall’attacco terroristico nei kibbutz israeliani del 7 ottobre.

L’approccio scelto da Nasrallah certamente evidenzia da un lato quanto efficace si stia rivelando l’azione di deterrenza da parte degli Stati Uniti, ma anche quanto basso sia attualmente l’interesse da parte di tutte le parti coinvolte, occidentali e non, a non estendere il conflitto all’intera regione mediorientale. L’attuale amministrazione americana sa bene quanto un improvviso aumento del prezzo del greggio, e dunque dei carburanti, peserebbe sulle presidenziali del prossimo anno. Ma anche i Paesi arabi hanno ben chiari i danni che un’interruzione dei flussi di gas e petrolio potrebbe sortire. Se infatti la stessa Teheran ha un estremo bisogno di liquidità per sopravvivere, anche Riad necessita di entrate regolari per implementare l’ambizioso piano Vision 2030, mentre un blocco dei flussi commerciali nello stretto di Hormuz danneggerebbe anche il passaggio delle metaniere qatarine verso l’Europa.

 


 

NON CONVIENE A NESSUNO
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Pechino, che sfrutta l’isolamento di Teheran per comprare petrolio e prezzo scontato, e la stessa Mosca che utilizza gli impianti iraniani per raffinare il suo greggio. Ma non sarebbe ancora più conveniente per i Paesi produttori di petrolio fomentare una crisi per aumentare i proventi? Non certo nell’attuale contesto di forte rallentamento dell’economia mondiale che, se pesa particolarmente sull’Europa, inizia a farsi sentire anche negli Usa, come ha fotografato l’ultimo indicatore sulla fiducia nel comparto manifatturiero. Dare il via a uno shock energetico oggi significherebbe mandare in stallo l’economia mondiale e dunque produrre uno stop agli acquisti di beni energetici.


Il messaggio emerso dal discorso di Nasrallah, tuttavia, non deve ingannare. Il conflitto in Medio Oriente, così come quello russo-ucraino, sono destinati a durare a lungo in quanto non rappresentano solo delle istanze legate a mere, benché tragiche, rivendicazioni territoriali. La posta in gioco è molto più alta e ruota anche su quale sistema economico finanziario prevarrà nel futuro: se quello basato sul dollaro Usa, in vigore dal secondo dopoguerra del secolo scorso, o su uno alternativo legato alle materie prime prodotte nei paesi emergenti.

USA NEL MIRINO
A vincere il braccio di ferro, almeno per il momento, è Washington che però è condannata a mantenere i tassi di interesse su livelli elevati per garantirsi la liquidità necessaria a finanziare i piani di reindustrializzazione e riarmo militare. Se infatti la Federal Reserve decidesse di tornare al vecchio schema, tagliando fortemente il costo del denaro, quale incentivo avrebbe il Global South, ossia il Resto del Mondo, a reinvestire i proventi dell’export in titoli di Stato statunitensi e quindi a non regolare gli scambi commerciali attraverso il baratto di materie prime magari quotate in valute diverse dal dollaro? Insomma, se l’alternativa alla Pax Americana non è ancora pronta, risulta evidente come la sua destabilizzazione avrebbe un impatto dirompente sul benessere della società occidentale. Già oggi risaltano con estrema chiarezza le prime conseguenze di due annidi conflitti (a cui potrebbe presto aggiungersene un terzo, nel Pacifico): stagflazione, instabilità sociale, nichilismo soprattutto tra i giovani, spesso pedine inconsapevoli del gioco delle autocrazie, come dimostrano le infelici partecipazioni alle manifestazioni pro-Hamas.

Sarebbe però altrettanto deprecabile non sforzarsi di individuare le radici della crescente spaccatura interna alle società occidentali. Perché i nostri ragazzi dovrebbero combattere per conservare un sistema che non offre più una prospettiva di lavoro stabile e una casa di proprietà? È questa la (scomoda) domanda che le classi politiche europee dovrebbero porsi al fine non solo di favorire una maggiore inclusione sociale, ma anche di uscire dall’autoisolamento nei confronti del resto del mondo che vede nelle politiche climatiche una nuova forma di imperialismo. E la risposta dovrà passare per un nuovo modello economico non più basato sulla tutela degli oligopoli e sul dirigismo, ma su una maggiore redistribuzione che ridia dinamismo all’economia e dunque una migliore prospettiva alle classi sociali che non hanno beneficiato della globalizzazione degli ultimi 40 anni.

IL SEGNALE DELLE ÉLITE
L’endorsement del presidente Joe Biden alle rivendicazioni salariali dei lavoratori nel comparto dell’auto (+25%!) può essere senz’altro letta in chiave di captatio benevolentiae in vista della scadenza elettorale del 2024 ma è anche un primo importante segnale di quanto le élite americane prendano seriamente le pressioni che arrivano dalla società. Contestualmente, però, il modello del futuro dovrà prevedere anche la fusione tra politica monetaria, commerciale e industriale dove il comparto della Difesa riveste un ruolo di primo piano. Certo, l’aumento delle spese militari potrebbe rappresentare un boccone forse troppo amaro da mandare giù per una parte dell’opinione pubblica abituata da decenni a dare per scontato beni di prima necessità. Ma chiediamoci a quanto ammonterebbe il danno per la nostra società dal non perseguirlo. Per concludere, l’Occidente dovrà abbracciare un nuovo paradigma economico che probabilmente non piacerà ai mercati (quando lo capiranno), ma che rappresenta l’unica speranza in grado di proteggere la nostra democrazia.

 

 

 

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