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Premierato, così Giorgia Meloni riscrive la legge

Fausto Carioti
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Sarà Giorgia Meloni a decidere il testo del disegno di legge sul premierato che finirà all’esame del parlamento. Lo farà senza urtare i leader alleati, che peraltro si sono già proclamati «laici» sulla questione. Anche perché ognuno dei due ha la sua grande riforma da incassare: per Matteo Salvini è l’autonomia differenziata, Antonio Tajani si sta intestando quella della giustizia. Mentre non ci sono dubbi che sull’introduzione dell’elezione diretta del presidente del consiglio la faccia più esposta appartenga alla premier. La quale ha toccato da poco con mano tutti i limiti del «percorso condiviso»: la legge di Bilancio doveva essere «inemendabile», per decisione concordata, e alla prova dei fatti non lo è stata. Meglio, allora, accentrare la gestione della pratica. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, al termine del vertice di giovedì tra i capigruppo della maggioranza e gli esperti e i ministri interessati, è stato chiaro quanto basta: «Ci saranno altri incontri, ma deciderà la presidente Meloni come procedere». Anche perché i tempi sono stretti: l’obiettivo è arrivare al primo voto parlamentare, nell’aula del Senato, entro la tarda primavera. In modo da far vedere agli italiani, chiamati il 9 giugno ai seggi per il rinnovo del parlamento europeo, che il cantiere è aperto ei lavori fervono.

I NODI DA SCIOGLIERE
Prima, però, occorre scriverlo, il testo da votare. Di certo la proposta presentata a fine ottobre sarà modificata. Quando il ministro delle Riforme, Maria Elisabetta Casellati, che ieri ha incontrato Meloni a palazzo Chigi, dice che «l’unico punto irrinunciabile è l’elezione diretta del premier», avverte che tutto il resto potrà essere cambiato. L’idea è farlo entro il 29 gennaio, con un pacchetto “chirurgico” di emendamenti sottoscritti dall’intera maggioranza. La presidente del consiglio ha le sue idee da tempo, e le audizioni dei costituzionalisti chiamati a dire la loro in Commissione le hanno rafforzate. Anche i professori di area conservatrice, convocati su indicazione del centrodestra, hanno segnalato i punti su cui occorre intervenire. Il primo riguarda il premio di maggioranza. Il disegno di legge presentato dal governo prevede che questo «garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri». Il problema è quel numero: non ha senso indicare nella Costituzione la quota di seggi parlamentari che saranno assegnati alla maggioranza, senza fissare contemporaneamente la soglia minima di voti necessaria per ottenerli.

 

 

A maggior ragione perché il presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, ha ribadito che la legge elettorale che dettaglierà il premio per il vincitore dovrà in ogni caso essere «coerente» con i principi dettati dalla Consulta, la quale ha stabilito che non si può consentire ad una lista «che abbia ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi». Insomma, per avere il 55% dei seggi non basterà essere primi, ma occorrerà aver preso almeno il 40% dei voti, o una quota analoga. La nuova norma costituzionale sarà quindi simile a quella suggerita in audizione dall’ex vicepresidente della Consulta Nicolò Zanon: «La legge disciplina l’elezione del Presidente del Consiglio dei ministri e delle due Camere secondo principi che assicurino rappresentatività dei candidati e stabilità dell’esecutivo». Senza impiccarsi con numeri e dettagli, dei quali si occuperà una norma ordinaria.

 

 

CONTRO I RIBALTONI
Un altro punto che sarà rivisto è quello che regola il meccanismo anti-ribaltone e il secondo premier della legislatura. Per come è stato disegnato nel disegno di legge del governo, costui sarebbe infatti più forte del primo, del quale prenderebbe il posto qualora il parlamento lo sfiduciasse. Solo il secondo, infatti, avrebbe in mano “l’arma nucleare” da usare contro i parlamentari: lo scioglimento automatico delle Camere qualora queste gli neghino la fiducia. Eppure, solo il primo premier verrebbe eletto dal popolo; il secondo sarebbe «un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto». Molti, anche nella maggioranza, la ritengono un’incongruenza. E la stessa Meloni non ha mai nascosto di essere favorevole al principio del «simul stabunt, simul cadent»: se il premier non ha più la fiducia delle Camere, queste vengono sciolte e si torna a votare. Tutto fa credere, quindi, che si adotterà questa formula, o una molto simile. È possibile, inoltre, che sia fissato un limite al numero di mandati che può svolgere un premier eletto, che nel ddl originario non è previsto. «Non mi creerebbe un grande problema», ha detto la premier nella conferenza stampa del 4 gennaio. Lei, dunque, non lo chiederà. Ma se gli alleati proporranno un “tetto”, che potrebbe essere di due mandati, “all’americana”, non si opporrà. 

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