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Piano Mattei, Giorgia Meloni incassa la fiducia dei 46 leader

Fausto Carioti
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La «scatola vuota», come la sinistra chiama il piano Mattei, è stata aperta ieri, e si è scoperto che dentro ci sono parecchie cose nuove e interessanti. Siamo agli inizi, il grosso del lavoro è tutto da fare e l’obiettivo di rendere le opportunità di lavoro nei Paesi africani «più forti della disperazione di ogni giovane», per dirla con le parole di Antonio Tajani, togliendo in questo modo motivi per emigrare, è epocale ed ambizioso. Però il primo passo è stato fatto nel modo giusto e Giorgia Meloni può dirsi soddisfatta. L’interesse dei governi africani è confermato dal fatto che molte delegazioni sono rimaste a Roma, anziché prendere il volo di ritorno ieri sera, a conferenza conclusa. Stamattina sfileranno nell’ufficio della premier, per discutere di nuove intese. Scene che erano abituali a Parigi, nell’Eliseo che ospita il presidente francese, non a palazzo Chigi.

Quando si mettono insieme leader di quarantasei Stati africani di ogni colore politico, spesso in rapporti tutt’altro che cordiali tra loro e con la voglia di fare esibizioni muscolari, può accadere di tutto, e la presidente del consiglio sapeva i rischi che correva organizzando il primo vertice Italia-Africa a livello di capi di Stato e di governo. Invece le uniche soddisfazioni alla sinistra le ha date il ciadiano Moussa Faki, presidente della commissione dell’Unione africana, dicendole che «sul piano Mattei avremmo auspicato di essere consultati. Non ci possiamo più accontentare di promesse». Alle sue parole si è aggrappato chi, nell’opposizione, cercava argomenti per screditare l’iniziativa. A Meloni, però, Faki ha anche riconosciuto che «le vostre prese di posizione a favore di un nuovo paradigma di partnership con l’Africa godono di ottima considerazione nel continente». E ha assicurato che «l’Africa è pronta a discutere contorni e modalità dell’attuazione» del piano.

 

 

In serata il presidente di turno dell’Unione Africana, il comoriano Azil Assoumani, ha spiegato che le parole di Faki che sembravano critiche erano state tradotte in modo impreciso dagli interpreti, e che in ogni caso «nessuno può contestare il piano Mattei». Per essere ancora più chiaro, ha detto che il vertice organizzato dall’Italia, «Paese fratello», è stato «un successo». Posizione tutt’altro che ostile da parte dei leader africani, quindi: semmai c’è l’invito a fare sul serio e stringere i tempi, che alla presidente del consiglio va benissimo. Anche perché sulla riuscita del piano Mattei c’è la sua faccia, non quella di altri. Motivo per cui ieri Meloni si è impegnata a seguire «personalmente» i progetti-pilota. Sono quelli da cui si parte per mostrare a tutti i Paesi africani qual è l’idea italiana di cooperazione «non predatoria», e rappresentano il primo contenuto della scatola che vuota non è. Prevedono di applicare le tecnologie e le competenze italiane, come quelle di Eni nell’energia e di Acea nei sistemi idrici, alle risorse africane, formando la manodopera locale e innescando un processo che arricchisca anche le popolazioni di quei Paesi, togliendo ai giovani la voglia di salire su un barcone.

 

 

MOTIVI DI OTTIMISMO
I soldi per avviare l’impresa ci sono: 5,5 miliardi di euro, 3 dei quali presi dal fondo italiano per il clima. La sinistra s’indigna, perché vorrebbe spenderli per inseguire gli obiettivi fissati negli accordi internazionali per la decarbonizzazione, del tutto inutili finché Cina e India non si impegneranno a fare altrettanto. Dirottare quei finanziamenti in Africa per costruire infrastrutture destinate a produrre e trasportare energia di cui beneficerà anche l’Italia è molto più intelligente. Dopo i fallimenti del passato la pretesa di dare una scossa all’Africa può sembrare velleitaria, ma in realtà è la cosa più pragmatica da fare, l’unico modo per impedire che nel giro di poche generazioni si trasferisca in Europa una quantità di persone che il vecchio continente non riuscirebbe a gestire. Gli africani sono 1,4 miliardi e ogni africana mette al mondo, in media, 4,6 figli (le europee, per avere un’idea, ne fanno 1,5, le italiane appena 1,2). Ingenuo sarebbe credere che senza un netto cambiamento di paradigma le cose possano sistemarsi da sole. Motivi per sperare ci sono. L’Africa ha risorse energetiche, minerarie e terreni agricoli illimitati e manodopera sovrabbondante, l’Italia ha tecnologie e gruppi industriali di livello mondiale. Scarseggiano le infrastrutture, in Africa e attraverso il Mediterraneo, e manca la necessaria formazione professionale in molti Paesi africani: ambedue le cose possono essere “costruite”. Le istituzioni europee hanno interesse a mettere sul piatto altri soldi. Ursula von der Leyen e Roberta Metsola, anche ieri al fianco di Meloni, hanno capito che creare un rapporto solido col capo del governo italiano conviene anche a loro. E tutto fa credere che dopo le elezioni europee la relazione tra Roma e Bruxelles sarà ancora più forte. 

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