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Antigone, la denuncia: i diritti sfregiati nei nostri tribunali

Fausto Carioti
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Indignazione ad alto volume dell’opposizione per il caso di Ilaria Salis, la 39enne italiana apparsa ammanettata e incatenata in un tribunale di Budapest, e il motivo è ovvio: l’Ungheria è governata da Viktor Orbán, e insistere su quel trattamento umiliante è un modo per colpire Giorgia Meloni, uno dei pochi leader europei ad avere un buon rapporto personale e politico con il presidente magiaro (almeno finché i due non parlano di Ucraina). Tutto strumentale, insomma, a puntellare la narrazione del governo italiano con orbace e manganello. Solo che non c’è bisogno di andare nell’Ungheria di Orbán per vedere scene del genere. E nemmeno occorre tornare indietro a quella foto del 17 giugno 1983: Enzo Tortora in manette mentre i carabinieri lo scortano nella vettura che l’avrebbe condotto in carcere.

O all’immagine-simbolo di Tangentopoli, dieci anni dopo: Enzo Carra, giornalista legato alla Dc, con gli schiavettoni ai polsi nel palazzo di giustizia di Milano. Per vedere un imputato – un presunto innocente – portato in manette in aula o rinchiuso in una gabbia durante il processo, basta entrare in un tribunale italiano oggi. Solo che nessuno s’indigna. Il titolo di una ricerca pubblicata nel 2021 dall’associazione Antigone, che segue la vita nelle carceri italiane dagli anni Ottanta, dice già molto: “Gabbie, box, manette: gli imputati e i mezzi di coercizione nei tribunali italiani ed europei”. Lì si legge che «è frequente, in Italia e in molti Paesi europei, che gli imputati, in tribunale, siano sottoposti a mezzi di coercizione. Spesso vengono tradotti da un ambiente all’altro del tribunale con le manette ai polsi, nonostante la presenza di agenti ai loro fianchi». Nel nostro Paese succede pure che, in attesa di apparire davanti ai magistrati, gli imputati «si ritrovino ristretti in celle adiacenti all’aula dell’udienza, anche in questo caso ammanettati e affiancati da agenti di polizia». E che poi, una volta entrati nell’aula del tribunale, seguano il processo chiusi nei «gabbiotti» con sbarre metallo.

 

 



LE LEGGI IGNORATE
Questo ed altro accade nonostante la presunzione d’innocenza scolpita nella Costituzione: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Nonostante la legge sull’ordinamento penitenziario, per la quale «nelle traduzioni individuali l’uso delle manette ai polsi è obbligatorio quando lo richiedono la pericolosità del soggetto o il pericolo di fuga o circostanze di ambiente che rendono difficile la traduzione». Mentre «in tutti gli altri casi l’uso delle manette ai polsi o di qualsiasi altro mezzo di coercizione fisica è vietato».

E nonostante l’articolo 474 del Codice di procedura penale, per il quale «l’imputato assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza». Siccome le udienze, di norma, sono aperte al pubblico e ai giornalisti, in questo modo girano “normalmente” le immagini degli imputati, che magari al termine del processo saranno assolti con formula piena, chiusi in gabbia o ammanettati. E anche questo, avverte Antigone, «spesso avviene in contrasto con la normativa vigente. Ciò riguarda principalmente il momento dell’arresto o della traduzione da un posto all’altro». Il Codice di procedura penale, infatti, a partire dal 1999, afferma che «è vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta». Eppure, rimarca l’associazione, capita anche che quelle immagini «siano fornite dalle autorità stesse».


Sbarre, barriere e manette, come si è visto, in Italia dovrebbero essere ammesse solo se indispensabili a scongiurare il pericolo di fuga. Ma dalle interviste che Antigone ha fatto con avvocati di vari fori d’Italia emerge che, nel deciderne l’uso, «non si prendono in conto elementi legati al caso – come la resistenza al momento dell’arresto – da cui si potrebbe far desumere una presunzione di pericolosità del soggetto». Tutti gli avvocati hanno espresso «forti riserve rispetto alla reale esigenza di ricorrere a questo strumento allorché si è scortati da agenti, in luoghi da cui la fuga è quanto meno inverosimile».

E nessuno di loro «serbava memoria o aveva conoscenza di tentativi di fuga attuati prima o nel corso dell’udienza». Ciò nonostante, manette e gabbiotti sono usati: per inerzia, perché questa è l’abitudine. Lo ha denunciato anche la Camera penale di Milano nel 2016, in documento titolato “L’estetica della giustizia, le gabbie e l’ipocrisia”. «Nelle aule milanesi», scriveva l’associazione degli avvocati, «in particolare negli inferi del piano terra nella zona dedicata alle direttissime, si assiste alla celebrazione dei processi con moltissimi imputati detenuti accalcati nelle gabbie». Solo negli ultimi anni, proseguiva il documento, «si registra una maggiore sensibilità, che porta ad ingressi scaglionati e quindi ad un minore affollamento». Tutto ciò, «oltre ad essere contrario ad un principio generale di dignità, ostacola in modo significativo una effettiva partecipazione consapevole dell’imputato al proprio processo e una utile comunicazione con il proprio difensore».

LA NORMA CARTABIA
Qualcosa è cambiato nel 2021, quando Marta Cartabia, su pressione dell’Unione europea, ha aggiunto un comma all’articolo 474 del Codice di procedura penale: da allora spetta al giudice, con un’ordinanza apposita e dopo aver sentito le parti, disporre l’uso dei gabbiotti odi altri strumenti, e questo limita gli abusi. La guardasigilli del governo Draghi, insomma, ha fatto quello che i suoi predecessori, molti dei quali (Diliberto, Fassino, Orlando, Bonafede) esponenti dei partiti che ora alzano la voce, si erano guardati bene dal fare. Eppure, nemmeno lei ha risolto il problema. «In Italia per fortuna non capita di vedere in aula persone ammanettate piedi e mani», dice il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. «Ancora troppo spesso, però, accade che vi sia la traduzione in manette negli spostamenti verso l’aula. E talvolta, a seconda del tipo di persona sotto processo, gli imputati in aula sono chiusi nei gabbiotti, senza manette. Ma i mezzi di coercizione dovrebbero essere usati il meno possibile e solo se vi è un’espressa richiesta motivata in questo senso, ossia non di routine». Così ora il rischio ora è il solito: che ci si indigni per le violazioni della dignità degli imputati nei tribunali ungheresi, perché torna utile per ragioni politiche, e si continui a considerare normale ciò che accade nei tribunali italiani. 

 

 

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