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Riforme, il premierato migliora ma resta il nodo della fiducia

Fausto Carioti
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Il governo ha presentato un nuovo testo di riforma costituzionale per l’elezione del premier da parte dei cittadini. È il terzo. Prima c’era stato il disegno di legge costituzionale depositato a novembre, rivelatosi subito bisognoso di ritocchi importanti. Il fatto che nella legislatura potesse esserci un secondo premier, non votato dal popolo eppure più forte nei confronti del parlamento rispetto al suo predecessore, era un’oggettiva anomalia.

La settimana scorsa governo e maggioranza avevano raggiunto un’intesa di massima su una serie di emendamenti, che rimpiazzavano la proposta originaria. Anche quella bozza, però, è stata giudicata carente sotto diversi aspetti. Così – dopo un giro di telefonate tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini ed Antonio Tajani – è stata definita una nuova versione, condensata in quattro emendamenti che il ministro delle Riforme, Maria Elisabetta Casellati, presenterà in Senato nei prossimi giorni. È la migliore di quelle viste sinora, anche se c’è almeno un punto in cui merita di essere corretta.

SIMUL STABUNT... La novità più importante riguarda il caso in cui il premier eletto dal popolo viene sfiduciato dal parlamento «mediante mozione motivata». In quest’ipotesi, la norma che ora si vuole inserire nella Costituzione è chiarissima: «Il Presidente della Repubblica scioglie le Camere», non sono percorribili altre strade.

 

 

Nei testi precedenti non era così. Il capo dello Stato avrebbe potuto conferire l’incarico di formare il governo «a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto», ossia ad un altro senatore o deputato della maggioranza. Questo eventuale secondo premier sarebbe stato comunque l’ultimo della legislatura: sfiduciato lui, si sarebbe andati a nuove elezioni. I parlamentari, per non perdere anzitempo lo scranno, avrebbero avuto quindi tutto l’interesse a mantenerlo lì dov’era sino alla scadenza naturale del loro mandato. Il paradosso, insomma, era che il solo il secondo premier, scelto dal parlamento, avrebbe avuto in mano l’“opzione nucleare”, quella che manda tutti a casa, e dunque sarebbe stato più stabile del primo, legittimato dal popolo.

Con le modifiche di ieri, quindi, il premierato all’italiana si avvicina al modello del simul stabunt, simul cadent: premier e parlamentari sono eletti contemporaneamente e insieme perdono il posto. L’insistenza e la mediazione di Luca Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento e senatore di Fdi, hanno dato i loro frutti. Tanto che Meloni, da Tokyo, si è detta «molto contenta del fatto che si sia trovata una formulazione della norma che è più chiara rispetto alla precedente e che ribadisce un fatto semplice: sono gli italiani, se passa la riforma, che devono scegliere da chi farsi governare».

Non è chiaro, invece, cosa accada nell’altra ipotesi in cui può spezzarsi il rapporto tra parlamento e governo: quella in cui una delle Camere boccia un provvedimento su cui l’esecutivo ha messo la fiducia. I governi ricorrono di frequente a questo espediente, che è utile per “blindare” i loro testi di legge, ma al contempo rischioso, perché se la votazione non va come previsto, magari per l’imboscata di qualche componente della maggioranza, si apre la crisi. Nel nuovo testo questa ipotesi non è disciplinata.

 

 

Alcuni esponenti del centrodestra spiegano che essa ricade nel caso delle «dimissioni volontarie» del premier. A seguito di queste, secondo gli emendamenti annunciati ieri, il presidente del consiglio eletto, «previa informativa parlamentare, può proporre, entro sette giorni, lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, che lo dispone». Il premier vincitore delle elezioni, rinunciando all’incarico, avrebbe quindi in mano il potere di far tornare il Paese alle urne, e questo sarebbe rivoluzionario per le abitudini italiane. Non si vede, però, come possano definirsi «volontarie» le dimissioni di un capo del governo al quale un ramo del parlamento ha appena negato la fiducia su un testo di legge.

Insomma, resta una “zona grigia” importante. Motivo per cui Marcello Pera, senatore di Fdi, sostiene che «c’è ancora lavoro da fare. Un governo che sia stato battuto sulla fiducia su un provvedimento, ad esempio sul bilancio o sulla guerra, non è in dimissioni volontarie, ma obbligatorie, e perciò non potrebbe chiedere lo scioglimento del parlamento». Già ieri sera, peraltro, dentro Fdi c’era chi ragionava di togliere dal testo l’aggettivo «volontarie», in modo che il premier abbia quel potere in ogni scenario di dimissioni, obbligatorie e non.

PIOGGIA DI EMENDAMENTI “Zona grigia” a parte, l’eventualità dell’incarico ad un secondo premier è confinata a poche ipotesi: quelle di morte, impedimento permanente, decadenza o scelta esplicita del premier eletto. Scompare pure l’obbligo, per il possibile successore, di attenersi al programma di governo del premier eletto, che era previsto nel disegno di legge originario. Depennato anche ogni riferimento al premio di maggioranza del 55%: per evitare complicazioni con la Corte costituzionale, che ha fissato paletti molto rigidi sulla soglia minima di voti necessaria per accedere al premio, il nuovo testo si limita a stabilire che le liste collegate al vincitore delle elezioni avranno «un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere», lasciando ogni dettaglio a una futura legge di tipo ordinario. Tutto fa credere, comunque, che il testo subirà ulteriori modifiche in parlamento. E di certo i tempi non saranno rapidi. Ieri, in commissione Affari costituzionali del Senato, si contavano quasi duemila emendamenti firmati dalle opposizioni. Ai quali seguiranno i sub-emendamenti che potranno essere presentati agli emendamenti del governo. Molto probabile, quindi, che i giochi veri inizino dopo le elezioni europee, quando protagonisti e rapporti di forza potrebbero essere diversi da quelli di oggi. 

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