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Libia, dopo la sentenza il governo tirerà dritto sugli accordi

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Michele Zaccardi
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La motivazione si condensa in una frase: la Libia non è un porto sicuro. Ed è questo l’appiglio a cui potrebbe aggrapparsi il ministero dell’Interno. Perché la sentenza della Cassazione si basa tutta su quell’assunto. Se si prova che non è più così, che ora la Libia rappresenta una destinazione “sicura”, gli effetti del verdetto sarebbero meno dirompenti di quanto auspicato dalla sinistra. E il governo manterrebbe la capacità di gestire come meglio crede i flussi migratori. Anche attraverso i rimpatri. È questo il cavillo su cui stanno lavorando i giuristi del Viminale, dopo che la Suprema Corte la scorsa settimana ha confermato la condanna nei confronti del comandante della nave mercantile italiana Asso 28. Il 30 luglio 2018, l’ufficiale intercetta a una decina di miglia dalla costa libica un gommone in avaria con a bordo un centinaio di naufraghi provenienti dall’Africa subsahariana. Dopo avere fatto salire un ufficiale della dogana libica, su richiesta dei suoi superiori presenti sulla piattaforma petrolifera per la quale lavorava il rimorchiatore, il comandante decide di dirigersi verso Tripoli. Ed è nella capitale libica dove i naufraghi verranno fatti sbarcare.

Ma subito dopo sono partite le contestazioni a carico del comandante, confermate poi dalla Cassazione pochi giorni fa. L’ufficiale è dunque stato condannato «per sbarco e abbandono arbitrario di persone», previsto dal codice della navigazione, e per «abbandono di persone minori incapaci», previsto dal codice penale. Il motivo risiede appunto nel fatto che la Libia, per i magistrati, non è un Paese sicuro. Tuttavia, la sentenza, nel fare questa valutazione, la contestualizza al momento storico in cui è stato effettuato il salvataggio, e cioè l’estate del 2018, quando la Libia versava in condizioni politiche e istituzionali gravissime.

 

 

La situazione, però, da allora è cambiata parecchio. In conseguenza dell’avvio di numerose collaborazioni con le Autorità riconosciute della Libia, con progetti sostenuti anche dall’Unione europea, meno di un anno dopo la stessa Commissione Ue dava atto dei progressi compiuti. In particolare, in una nota del 18 marzo 2019, la direzione generale affari interni della Commissione sottolineava i passi avanti fatti dalle autorità libiche (a seguito delle iniziative di collaborazione, sostegno logistico e formazione e addestramento anche da parte della Ue) nella gestione della zona Sar (per le attività di ricerca e soccorso in mare) e delle capacità operative dimostrate dalla Guardia costiera locale nel soccorrere le imbarcazioni in difficoltà ed effettuare i salvataggi di sua competenza. Nel dettaglio, nella nota si evidenziavano i risultati raggiunti dalla «Guardia costiera, riconosciuta dal Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite come una struttura legittima e legittimata dal governo di accordo nazionale, che a sua volta è riconosciuto dalla comunità internazionale». Non solo. La sentenza della Cassazione fa riferimento alla necessità di farsi coordinare dalle autorità marittime competenti, proprio in coerenza con le regole affermate dal governo per la gestione del complesso fenomeno dei salvataggi nel Mediterraneo e del contrasto al traffico di esseri umani. 

 

 

 

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