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Pd e M5s, la strategia suicida: come si sono auto-affondati

Daniele Capezzone
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Quando un errore tattico si somma a un errore strategico, le conseguenze sono facilmente immaginabili: un disastro. È quello con cui – oggi – devono fare i conti Pd e Movimento 5 Stelle, una volta chiuse le urne abruzzesi, per loro amarissime. L’errore tattico è stato quello di pompare a dismisura il voto di domenica, di alimentare un’aspettativa spasmodica, di alzare ogni giorno l’asticella, di caricare quella scadenza di attese miracolistiche, di immaginare che – dopo l’episodio di due settimane prima in Sardegna – ci fossero le premesse per una spallata ai danni del governo. Come ne escono, a conti fatti? Effettivamente, con una spalla lussata: la loro, però.

Saggezza avrebbe suggerito una maggiore cautela. E invece su Libero di oggi ritroverete – le abbiamo impietosamente recuperate e riordinate – tutte le dichiarazioni più tronfie della vigilia, quando grillini e piddini, in stereofonia, non solo promettevano di vincere con 10 punti di margine, ma spiegavano che – a quel punto – per Giorgia Meloni sarebbe stato ben difficile continuare l’avventura di governo. È finita come sapete. Ma a questo errore tattico si è sommato – ancora più gravemente – un doppio errore strategico, sia da parte di Giuseppe Conte che da parte di Elly Schlein.

 

CLAMOROSO BLUFF
Conte ha tentato un clamoroso bluff: non solo prospettando sconvolgimenti nazionali che il voto abruzzese comunque non avrebbe potuto comportare, ma – furbescamente – cercando di completare la sua opa su tutta la sinistra. Aveva percepito una Schlein debole-gregaria-remissiva, e, pur disponendo di meno voti, il capo pentastellato si era messo in testa di fare il colpaccio, cioè di garantirsi l’egemonia su tutta l’area e la quasi certa candidatura a premier nel 2027.

Aveva però sottovalutato i numeri: non solo i modesti risultati locali del M5S (tradizionale tallone d’Achille dei pentastellati), ma anche il fatto che, quando il Movimento si ammucchia indistintamente con troppe altre forze, perde sempre qualcosa in termini di attrazione di voto di protesta e anti-sistema. Morale: l’uomo della pochette esce con un risultato che lui stesso ieri ha onestamente definito “modesto”. Peccato che – dopo questa sincera ammissione – Conte abbia buttato la palla in tribuna evocando un grande classico del repertorio delle scuse politiche («Dobbiamo radicarci nei territori»): la realtà è un’altra, e cioè che la sua scommessa strategica non è riuscita, e che la conta alle Europee del prossimo giugno rischia di rivelarsi ulteriormente al ribasso.

Parliamoci chiaro: il M5S è ormai desertificato al Nord, decisamente fragile al Centro, e invece avrà una sua notevolissima consistenza solo in quattro-cinque regioni del Sud. Ma questo lo spingerà ad accentuare una linea iper-assistenzialista e pro-sussidi che lo renderà ancora meno credibile come possibile futura forza di governo.

Quanto al Pd, l’errore strategico – se possibile – è perfino più grave. Non si capisce quale masochismo, quale autolesionismo politico abbia spinto Schlein a consegnarsi all’egemonia pentastellata. Anche un bambino comprende che le posizioni di politica estera dei Cinquestelle (sfacciatamente pro Russia, pro Cina, pro Iran), quelle fondamentaliste green, quelle ideologicamente anti-infrastrutture e anti-grandi opere, rendono quel Movimento qualcosa da cui una sinistra riformista dovrebbe ogni giorno distinguersi. Anche in una logica di eventuale collaborazione futura (tutta da costruire), nell’immediato sarebbe servita e servirebbe una robusta capacità politica del Pd di rivendicare e sottolineare le differenze, sfidando i pentastellati, e sconfiggendo le loro posizioni massimaliste. Per paradosso, un’alleanza sarebbe divenuta o diverrebbe possibile proprio a quelle condizioni: cioè dopo aver vinto la partita delle idee.

E invece Elly, realisticamente con il modesto obiettivo di salvare la propria segreteria, ha rinunciato in partenza a un confronto duro sui principi, e si è autoconvinta di doversi connotare come la tessitrice di un’alleanza a qualunque condizione, accettando qualsiasi umiliazione programmatica e pure un pesantissimo sacrificio rispetto alla futura leadership della coalizione.

TESTARDAGGINE
E incredibilmente, perfino ieri, a sonora sconfitta subita, anziché dare segni di ripensamento, la segretaria Pd ha scleroticamente ribadito la linea della convergenza a prescindere con i pentastellati. Come dire: il campo largo non ha funzionato? E allora ne vogliamo ancora di più. L’ammucchiata si è rivelata non competitiva? E allora ammucchiamoci di nuovo. Ripetendo una tesi fragile ai limiti del ridicolo (letta ieri in prima pagina su Repubblica), Schlein si è perfino rallegrata del dimezzamento del divario dal candidato risultato vincente in Abruzzo (da circa 20 punti a meno di 10). Ma come? Fino al giorno prima, lei e i suoi si esercitavano nel racconto della spallata prossima ventura, e invece – il giorno dopo – si accontentano di una sconfitta pesantissima?

Tutto questo, se ancora esistessero teste lucide e libere nelle opposizioni, offrirebbe ragioni fresche e consistenti per rimettere in discussione uno schema politico dato per scontato ma rivelatosi inefficace. Quella che Libero ha chiamato “ammucchiatissima” – a ben vedere – ha rattrappito il voto di lista per i grillini, e non ha consentito al Pd di centrare un successo. Non è nostro compito dare suggerimenti a Pd e M5S, che sanno benissimo sbagliare da soli: ma forse – ciascuno nel proprio quartier generale – i due gruppi dirigenti farebbero bene a preparare anche qualche scenario alternativo, nel loro stesso interesse politico. All’opposizione, diversamente da quanto speravano fino a trentasei ore fa, ne avranno tutto il tempo.

 

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