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Moro e Craxi, due leader dal destino incrociato

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Francesco Damato
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Anche in alcuni degli interventi più recenti sul sequestro di Aldo Moro si è tornati a scrivere che epilogo diverso non avrebbe potuto esserci nel contesto internazionale nel quale esso si svolse. Cioè col mondo ancora politicamente e militarmente diviso in due per gli accordi di Yalta alla fine della guerra scatenata da Hitler con l’originario consenso dei russi, Che poi, una volta attaccati anch’essi dai tedeschi ed entrati quindi nella coalizione antinazista, si videro riconoscere la sostanziale sovranità su una parte d’Europa in cambio della supremazia americana nell’altra parte, comprensiva dell’Italia.

Un governo con i comunisti, qual era quello attribuito a torto o a ragione ai progetti di Moro, era indigesto sia a Washington per quanto il Pci si fosse evoluto fino a considerarsi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato, secondo una celebre intervista di Enrico Berlinguer - sia a Mosca. Dove si era arrivati a concepire anche un attentato a Berlinguer in Bulgaria pur di interromperne la marcia di avvicinamento alla Dc in nome del “compromesso storico”. Tutto insomma congiurava contro Moro e a favore dei brigatisti rossi che lo avevano sequestrato, per commissione o autonomamente, per una bravura diciamo così- troppo generosamente attribuita loro con l’operazione di via Fani. Che fu invece, secondo me, come ho scritto all’inizio di questo reportage all’indietro a 46 anni dai fatti, frutto più degli errori di chi doveva proteggere Moro che dei meriti o della preparazione dei suoi nemici.

 

 

COLLABORAZIONE FINITA
Può darsi, per carità, che tutto fosse destinato a finire come finì. Ma non c’è la controprova. Non la si volle neppure sperimentare, a parte il sacrificio di Leone. D’altronde, a interrompere la “collaborazione parlamentare” col Pci, come la chiamava Moro dopo i risultati elettorali del 1976 con “due vincitori”, che erano la Dc e lo stesso Pci, e i socialisti di Francesco De Martino indisponibili a governare con i democristiani senza i comunisti; a interrompere quella collaborazione, dicevo, non fu tanto la morte di Moro quanto lo stesso Pci. Che si ritirò spontaneamente dalla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, provocando le elezioni anticipate del 1979, per non affrontare il problema che andava nel frattempo maturando del riarmo missilistico della Nato dopo il vantaggio conseguito dal blocco sovietico con gli SS20.

Evidentemente il famoso ombrello dell’alleanza atlantica sotto il quale sembrava avesse preferito collocarsi Berlinguer per difendere la sua autonomia da Mosca doveva essere e rimanere un ombrello bucato. E neppure Moro ancora vivo, liberato o mai sequestrato, avrebbe potuto convincere il Pci a fare quello che invece consentì il Psi di Craxi al governo della rinata collaborazione con i democristiani: il riequilibrio delle forze in campo. A superare il quale l’Unione ancora Sovietica ritentò sfasciando il suo sistema economico e dissolvendosi.

L’OMICIDIO E L’ESILIO
Aldo Moro e Bettino Craxi. Ecco i due uomini con le cui morti parallele - uno ammazzato a 62 anni e l’altro costretto alla morte a 66 anni in esilio, o nella latitanza ancora gridata dai suoi irriducibili avversari vorrei chiudere questa serie di articoli a quasi mezzo secolo da via Fani. Essi hanno segnato entrambi la cosiddetta prima Repubblica, dopo l’avvio degasperiano. E sono stati accomunati dalla loro scomodità, chiamiamola così, rispetto agli equililbri politici ereditati dall’uno e dall’altro ma in evoluzione. Moro, che tanto volle il centro-sinistra, fu costretto dagli stessi socialisti che aveva portato al governo a cercare una via d’uscita quando essi smarrirono la loro autonomia. E si avventurò - mi disse una volta sulla strada del deserto per attraversarlo in attesa che i suoi antichi alleati ritrovassero se stessi, quel loro spirito umanitario e sociale che invocò dalla prigione in cui lo rinchiusero i terroristi quando fu costretto a difendere la propria vita dalla morte cui si era avvicinato camminando appunto in quel deserto.


Forse Moro, come anche Fanfani, l’altro “cavallo di razza della Dc” già evocato una volta citando Carlo Donat-Cattin, non sarebbe arrivato a pagare per il ritorno dei socialisti al governo il prezzo di Palazzo Chigi. Ma sicuramente nonne avrebbe ostacolato il recupero in autonomia dal Pci, né ne avrebbe sacrificato il ruolo, come i dorotei si aspettavano durante la sua prima esperienza presidenziale. E perciò gli contestarono troppa arrendevolezza, salvo scavalcarlo per ragioni di potere con l’edizione “più incisiva e coraggiosa” del centrosinistra nel 1968, l’anno peraltro della contestazione giovanile.


ROMPISCATOLE
Posso sbagliare, per carità, ma Moro non sarebbe diventato un nostalgico della collaborazione parlamentare col Pci una volta finita per scelta di Berlinguer. Non avrebbe assecondato i colleghi di partito tanto abituatisi alla convenienza dei monocolori democristiani appoggiati esternamente dai comunisti. Sarebbe diventato un loro rompiscatole. Craxi, dal canto suo, una volta caduto il muro di Berlino, e con esso il comunismo, cresciuto già di suo a Palazzo Chigi col pentapartito comprensivo di socialisti e liberali, divisi invece dal primo centro-sinistra, mai avrebbe rinunciato al disegno di guidare la sinistra riformista. Non a caso sventolò subito la bandiera dell’”Unità socialista” seminando il panico fra i vari Occhetto e compagni. Ai quali non parve vero cavalcare Tangentopoli, “mani pulite” e simili per liberarsi del “cighialone”, come chiamavano il segretario del Psi. Mai egli si sarebbe mescolato, occultato, disperso in un Pci trasformatosi per convenienza in Pds, poi Ds infine Pd. Sarebbe stato anche lui un rompiscatole. Non caso ho avuto simpatie, ricambiate, sia per l’uno che per l’altro. E soffro nel vederne storcere le figure ogni qualvolta se ne celebra la morte sostanzialmente violenta che hanno subìto: l’uno Moro, come di un debole rassegnato alla resa ai comunisti e l’altro come di un ladro, del capo espiatorio del finanziamento illegale al quale si erano abituate tutte le forze politiche destinando al loro finanziamento per ipocrisia mezzi di gran lunga inferiori alle necessità del loro funzionamento. Che era ed è poi il funzionamento della democrazia.

DOPO LA SBORNIA
Non a caso, del resto, finitela sbornia e le strumentalizzazioni di “Mani pulite” e constatato quanto ancora costasse quella che lui riteneva solo corruzione, il compianto Francesco Saverio Borrelli si chiese pubblicamente se fosse convenuto “mandare tutto all’aria” di fronte a ciò che ne era seguito. Un dubbio interpretato come richiesta accettata di scuse in un libro autobiografico di Claudio Martelli, un’altra vittima illustre di quella stagione falsamente o presuntuosamente rivoluzionaria, che lo stesso Borrelli riconobbe essere stato fra i migliori ministri della Giustizia in Italia. In conclusione, tornando a Moro e a Craxi, l’uno non sarebbe diventato Romano Prodi, occupatosene in una famosa seduta spiritica. E Craxi non sarebbe diventato Matteo Renzi, improvvisatosi socialista portando da segretario il Pd nel Pse e poi andandosene in cerca d’autore.

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