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Mario Draghi è allergico alle elezioni: vuole vincere senza confrontarsi con i partiti

Mario Draghi

Francesco Damato
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Dall’Eneide dei nostri ricordi scolastici siamo passati alla Dragheide delle nostre cronache politiche, purtroppo senza disporre di un Virgilio, e dovendoci accontentare della nostra modestia di cronisti, retroscenisti, opinionisti, politologi e via classificandoci e definendoci con minore o maggiore supponenza, magari anche involontaria: tutti convinti di vedere le cose e le persone dal punto di vista più appropriato. Purtroppo è lo stesso Mario Draghi - perché è di lui che sto naturalmente scrivendo- a metterci, diavolo di un uomo, in difficoltà per la ritrosia, reticenza, furbizia o com’altro vogliamo chiamarla, nel raccontarsi o proporsi.

Accadde più di due anni fa con la corsa al Quirinale, persa - come gli ha giustamente rimproverato Mario Sechi- per un difetto di comunicazione con i partiti che in Parlamento si giocano la partita presidenziale in mancanza di un’elezione diretta, e si sta ripetendo adesso con la corsa a Bruxelles, chiamiamola così.

È lo spettacolo di un Draghi che vuole partecipare alla gara alla sua maniera, lanciando segnali di più o meno azzeccate o arbitrarie interpretazioni. Ed esponendosi così all’accusa, rivoltagli appunto da Sechi e rilanciata da Daniele Capezzone, di perseguire obiettivi magari condivisibili nella sostanza ma non nel metodo. Cioè saltando il passaggio dei partiti, per quanto siano un po’ tutti malmessi, e soprattutto degli elettori. Ai quali va però riconosciuto che, anche volendo intrupparsi in qualche formazione politica, scegliendola magari col naso montanellianamente turato, Draghi non potrebbe di fatto rivolgersi.

 

 

Come in Italia sia per il presidente della Repubblica sia per il presidente del Consiglio, così in Europa sia per la presidenza della Commissione esecutiva sia per la presidenza del Consiglio comunitario manca l’elezione diretta. E mancherà, temo, ancora più a lungo anche in Italia, dove almeno Giorgia Meloni- grazie a Dio- ha posto con forza il problema facendo nascere anzitempo comitati referendari, o simili, contro quella che lei chiama giustamente «la madre di tutte le riforme». Il metodo in politica, ma non solo in politica, è importante quanto e persino più della sostanza. Ma attenti, per favore, a non dimenticare la sostanza, o quello che Ugo La Malfa chiamava il contenuto preferendolo al contenitore. E la sostanza, nel nostro caso, al netto del problema del “pilota automatico” posto da Sechi pensando a quelli che vi ricorrono con troppa frequenza o disinvoltura senza accorgersi delle vittime e dei danni che può comportare; la sostanza, dicevo, è quella svolta “radicale” prospettata da Draghi per rimettere l’Unione Europea con i piedi per terra. E archiviare finalmente regole o solo pratiche adottate in tempi troppo lontani e/o diversi dai nostri, alle prese non più con rischi di guerre ma con guerre vere e proprie. Che si svolgono ai nostri confini, o persino dentro, come in qualche modo accade col conflitto in Ucraina. Dal quale forse molti si sono troppo distratti occupandosi di altre tragedie sopraggiunte, come quella di Gaza e dintorni.

 

 

LE COLPE DELLA SINISTRA - La svolta “radicale”- ripeto - in Europa per aumentarne forza e competitività serve anche alla politica interna italiana, che sta al riformismo pur da tutti declamato come il sogno alla realtà, o la malafede alla sincerità. E ciò più a sinistra, dove pure di riformismo più frequentemente si parla, che a destra. La cui leader cerca di praticarlo anche a costo di esporsi all’accusa di disattendere, tradire e quant’altro i suoi vecchi impegni elettorali o propagandistici. Come, in tema di immigrazione, i blocchi navali un po’ più difficili da gestire di quelli terrestri.

Vi sembrerò forse allontanarmi troppo dal ragionamento iniziale e calarmi pretestuosamente in altre faccende, ma lasciatemi manifestare sgomento nel vedere il Pd della giovane, plurinazionale Elly Schlein, con tutti i passaporti di cui dispone e le lingue che parla, aggrapparsi emotivamente al quarantesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer per intestargli il partito che guida, con quegli occhi del leader comunista riprodotti sulle tessere d’iscrizione del 2024. Un Berlinguer - pace all’anima sua, per carità, anche per le circostanze drammatiche in cui morì, nel pieno di una campagna elettorale europea come quella in corso 40 anni dopo- che propose o impose la cosiddetta questione morale solo come pretesto per sfilarsi da una politica di solidarietà nazionale che non riusciva a reggere. Che contestò il rallentamento antinflazionistico della scala mobile dei salari deciso dal primo governo italiano a guida socialista. Che scambiò il riformismo costituzionale di Craxi per golpismo. E mi fermo qui solo per ragioni di spazio.

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