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Strage di Capaci, la mia leva a Palermo nella stagione del riscatto

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Gianluigi Paragone
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Capaci, 23 maggio 1992. E chi se la può scordare quella data? Ha segnato una generazione, profondamente. Lui, Giovanni Falcone, e il suo amico, Paolo Borsellino al quale la Mafia riservò poco tempo dopo (19 luglio) lo stesso trattamento. La strage di Capaci, si dice. Racchiudendo la lotta tra un mondo impregnato di violenza, omertà, morti e prepotenze, e un altro mondo fatto di legalità, fatto di esempi e di coraggio. Era il 23 maggio ‘92, quando finivo una riunione scout, l’aria era tesa per un attentato gravissimo in Sicilia; solo nel tardo pomeriggio i tg avrebbero dato la conferma che su una di quelle macchine viaggiava Falcone. Era il 23 maggio quando già a sera, immediatamente, quell’Italia fatta di associazioni, di volontari, di tante persone per bene dicevano che non si poteva tollerare oltre. Che quella morte doveva paradossalmente avere un senso e quella data dovesse diventare simbolica per una rinascita.

Caso ha voluto che il mio primo figlio sia nato il 23 maggio. Tommaso. Anche se a mia nonna quel nome non piaceva perché gli ricordava quell’altro Tommaso, don Masino. Quel Buscetta le cui confessioni affidate a Giovanni Falcone avrebbero consentito la messa a fuoco di Cosa Nostra. «È nato», potevo esclamare il 23 maggio. Quel giorno diventava per me qualcosa di più profondo ancora, di più intimo. Del resto non era stata nemmeno la prima volta che il martirio di Falcone avrebbe inciso nella mia vita. Dopo la strage di Capaci e la strage di via D’Amelio, chi in quegli anni aveva l’ardore adolescenziale non sarebbe rimasto indifferente al riscatto che partiva dalla Sicilia: tanti giovani e non solo ci mettevano la faccia; le fiaccolate, le partecipazioni ai dibattiti, le interviste in tv dove si squarciava l’omertà. In quegli annidi militanza nell’Agesci, presi parte a tantissime iniziative antimafia. Ma qualcos’altro avrebbe inciso ancor più nella mia gioventù. Dopo una settimana dall’uccisione di Paolo Borsellino, e dopo alcune rivolte scoppiate nel carcere di Palermo, il governo (che ai funerali di Capaci dovette subire una pesante contestazione) decise il regime di carcere duro, il 41 bis, e l’invio in Sicilia dell’esercito, che era per lo più composto da soldati di leva.

I Vespri ebbero inizio il 25 luglio 1992 e si conclusero l’8 luglio 1998. Ebbene alla cerimonia di chiusura c’ero anch’io, con la mia divisa militare e il cappello con la penna. Quinto reggimento alpini: da Vipiteno a Palermo per 5 mesi, prima alloggiati a Termini negli stabilimenti ex Fiat e poi alla Scianna. Eravamo le facce pulite dello Stato che stavolta c’era. Eravamo giovani provenienti da tutta Italia che abbracciavano una Sicilia segnata che tornava a vivere grazie alla presenza dell’Esercito, dei suoi ragazzi. I “miei” venivano per lo più dalle valli prealpine varesine e comasche, poi c’erano tantissimi bergamaschi e bresciani, i quali si innamorano di quella Palermo che dopo i turni di guardia ai siti sensibili (dal tribunale al carcere, dalle case dei procuratori al piantone di via Notarbartolo dove abitavano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo) esploravano tra monumenti, chiese e le spiagge di Mondello. Cinque mesi della mia leva, lì, a vivere la stagione del riscatto. Con passione civile. Che mi è rimasta addosso. Oggi 23 maggio, come sempre, nel fare gli auguri a mio figlio Tommaso, penso al sacrificio di Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia e tradito dallo Stato. Magistrati in primis. E a quelli che già sapevano che servire le istituzioni avrebbe avuto un prezzo da pagare. 

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