Sei di centrodestra? Gogna social e in tv

Non credo siamo tenuti a volerci bene per forza come collettività ma neanche a scegliere il nostro posto in curva per tirare i pomodori, o peggio, a quelli della curva opposta
di Annalisa Terranovadomenica 8 giugno 2025
Sei di centrodestra? Gogna social e in tv
3' di lettura

In tv mi è capitato di assistere di recente a un confronto tra Marco Furfaro (Pd) e la giornalista Laura Tecce. Lui, esagitato, attaccava a testa bassa sempre usando il pronome “voi” intendendo voi di destra, voi nemici, voi inferiori. Inanellando poi una serie di stilettate offensive: se fai il giornalista embedded poi ti devi arrampicare sugli specchi, venite in tv a fare le figurine e via cantando. Insomma quando viene nel talk uno di destra deve essere accerchiato, e commentato con le faccette disgustate, alzate di sopracciglio, sorrisetti di scherno, sguardo spazientito al cielo e così via. Se è un politico c’è un po’ più di rispetto. Sul giornalista invece ci si può accanire. Chiaramente, se uno sceglie di andare, sa che quello è il copione e lo accetta. Non si riflette abbastanza però sul fatto che un format di questo tipo eccita le curve social, in particolare la curva sinistra, che riversa poi sul “nemico”, ad ogni apparizione, vere e proprie shit storm (letteralmente tempesta di merda). Ora, i giornalisti e le giornaliste che non sono portavoce della sinistra e in tv non attaccano il governo non sono in numero elevato.

Saranno una decina o poco più e tutti e tutte hanno assaggiato la gogna social. Anche chi scrive, ovviamente. E ho potuto notare che mentre secondo la narrazione corrente si attribuisce alla destra la colpa di parlare alla pancia del paese o di esserne addirittura espressione, quella medesima pancia – collocata nello schieramento di sinistra - erutta e vomita offese, tra una lacrima per Gaza e una professione di antirazzismo, a getto continuo. E non si accontenta dell’accusa demonizzante di fascismo. Ci si addentra gioiosamente nel bodyshaming, si prende di mira l’outfit, si dubita del curriculum, si mette in discussione l’esistenza stessa di testate – Libero in particolare – che risultano urticanti per il vociante popolo del “webbe” progressista. Non sono mancati nei miei confronti commenti minacciosi: «Questa fa parte della lista», espressione che riecheggia un lugubre slogan degli anni Settanta. E ci sono stati esponenti di partito che hanno urlato in trasmissione che non dovevano più invitarmi perché con i fascisti non si parla. Di recente ho condotto PrimaPagina su Radio3 e ho potuto toccare con mano l’odio social.

Mi hanno riversato addosso un po’ di epiteti gentili: serva, lecchina, scema, tonta, nullità, inadeguata, inascoltabile, vomitevole, insopportabile, e vari “non la reggo”, “silenziatela”, “rimandatela a fare la casalinga”. Si può scegliere, e molti colleghi lo fanno, di non curarsi di questo rituale di odio che sembra ormai preponderante sui social (“sono solo haters, che ci vuoi fare?”). È un modo per aggirare un problema gigantesco. Gli haters usano parole, le parole sono anch’esse “atti linguistici”. Enunciare una frase, o un’offesa, in questo caso, significa di per sé compiere un’azione come spiegano bene gli studiosi del messaggio Austin e Searle. “Il dire diventa fare e il linguaggio diventa uno strumento dell’azione sociale”. L’atto linguistico produce anche un effetto extralinguistico: convince, allarma, rassicura e, nel caso di specie, dà il via al linciaggio. Poi arriva il Saviano di turno e dice che la destra usa il manganello mediatico... vabbé. Ciò cui abbiamo accennato è una realtà tutt’altro che marginale. E rientra nel dibattito sul free speech e sul cosiddetto “diritto all’odio”. Personalmente, non credo siamo tenuti a volerci bene per forza come collettività ma neanche a scegliere il nostro posto in curva per tirare i pomodori, o peggio, a quelli della curva opposta. Il diritto da difendere, secondo me, è anche quello di stare fuori da ogni curva e di non essere importunato per tale scelta.