Pur in assenza nominale dei comunisti e socialisti, il fronte popolare realizzato dal terzetto Conte-Landini-Schlein, in ordine rigorosamente alfabetico, attorno ai cinque referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza, appena annegati nelle acque di un astensionismo per niente casuale, è tornata alle origini. Cioè al 1948, quando Pietro Nenni commentò i risultati delle elezioni politiche contrapponendo le “urne vuote” di voti per la sinistra alle “piazze piene” che gli avevano un po’ fatto perdere la testa. Sino a fargli chiedere a Sandro Pertini, peraltro contrario ai modi e ai tempi con i quali era stata concordata l’alleanza col Pci di Palmiro Togliatti: «Avremo uomini abbastanza per coprire tutti i posti che ci spetteranno al governo?». Uomini e anche donne, naturalmente. Accasciato su una sedia sudato, stanco e deluso, Nenni dovette subire nel suo ufficio di segretario socialista il sarcasmo di Pertini, che lo consolò dicendogli che non avrebbe dovuto più preoccuparsi di dovere trovare così tanti compagni per occupare così tanti posti. Fra l’altro, anche i compagni socialisti erano stati politicamente falcidiati con l’uso delle preferenze da parte dei comunisti, risultati fra gli eletti alla Camera più numerosi e rimastivi sino alla fine dei due partiti. Nonostante i tentativi di Bettino Craxi negli anni Ottanta, da presidente del Consiglio, di riequilibrare i rapporti di forza.
Le urne questa volta, con i referendum ancora scambiati senza ironia dalla segretaria del Pd Elly Schlein per un promettente decollo del progetto di alternativa a Giorgia Meloni, sono state avare più ancora di schede che di voti. Di tante schede da invalidare i referendum per disposizione costituzionale. E da trasformare i risultati dei conteggi i coriandoli in un Carnevale preso però tanto sul serio dalla Schlein da contrapporre -udite, udite- i 14 milioni di votanti di domenica e lunedì scorsi ai 12 milioni di voti ottenuti dalla Meloni e dagli alleati nelle elezioni politiche di tre anni fa. E poiché 14 sono più di 12, la Meloni sarebbe adesso la sconfitta e la Schlein la vincitrice. Parola anche di Goffredo Bettini, spintosi su Facebook a contestare persino “l’intelligenza” dei suoi contestatori. Qui evidentemente siamo ai piani non alti, ma sotterranei dell’intelligenza artificiale. L’ironia mancata alla Schlein, consiglieri, estimatori eccetera l’ho invece trovata nel racconto della sua domenica elettorale fatto alla Stampa da Luciana Castellina, 96 anni ad agosto, icona di una sinistra passionaria e indisciplinata, sino a rimediare nel 1970 la radiazione dal Pci di Luigi Longo ed Enrico Berlinguer con i compagni del manifesto.
Capezzone, "la parola sparita dalla prima pagina di Repubblica"
Uno strano mercoledì sui giornali. "Strano a sinistra, perché dopo lo schiaffone referendario i nodi ...«Ho trovato la fila al seggio», si è consolata Luciana Castellina. Che ha però onestamente aggiunto e precisato di «abitare in una zona della sinistra Ztl», il centro città a traffico limitato, in ogni senso lontano dalle periferie che erano una volta le praterie della sinistra orgogliosa di rappresentare e difendere i più deboli, i più bisognosi, i meno fortunati. Pure la Castellina, tuttavia, si è lasciata prendere un po’ dalla nostalgia e dall’illusione, accomunando la fila trovata nel suo seggio alla piazza del giorno prima a Roma per Gaza e dintorni. E al titolo «c’era una volta» assegnatole dal suo manifesto. «È importante ovunque che ci siano dei segnali che indicano un ritorno a una forma di democrazia diretta, in cui non si delega a qualcuno la decisione ma si interviene in prima persona», ha detto la Castellina. Democrazia “diretta”, ma a bassa intensità. Amplificata solo dai sogni, dalla propaganda, dai social. Piazze piene e urne vote, per tornare al 1948, a Nenni e a tutto il resto della sinistra. Punto e daccapo.