Lo strano caso di Matteo Ricci, il politico che si candida a governare l’ente che voleva cancellare. È proprio così, paradossale. Correva l’anno 2014. L’allora neo sindaco di Pesaro, giovane promessa dem, con qualche riccio in più in testa ma la stessa sfrontatezza politica, era stato da poco promosso da Matteo Renzi alla vicepresidenza del Pd. Il rottamatore stava a Palazzo Chigi e coltivava il progetto, per la verità già veltroniano, di ridurre le Regioni italiane da venti a dodici. La scusa era razionalizzare le amministrazioni e renderle più efficienti con il pretesto di creare delle macro-aree in una logica di dialettica con l’Europa. Lo scopo reale era invece soffocare ogni istanza autonomista, piallando le diversità territoriali, centralizzando il potere e privando i cittadini di referenti politici territoriali.
Neanche a dirlo, Ricci, che pure era un amministratore locale in carica ed era appena stato presidente della Provincia di Pesaro, si buttò a pesceo meglio, a pappagallo - sul progetto. «Il numero delle Regioni è eccessivo, dobbiamo riformarle e ridurle. Partiamo da Marche e Umbria, che sono piccole e perciò vanno unite», disse, prendendo a pretesto il forte astensionismo registrato in Emilia Romagna, quando il dem Stefano Bonaccini, allora anche lui renziano, venne eletto presidente con solo il 37% degli aventi diritto al voto che si erano recati al seggio. «C’è disaffezione questi enti vengono sentiti come lontani dalla gente», sentenziò l’attuale candidato governatore proponendo come soluzione al distacco emotivo un distacco effettivo, da realizzarsi attraverso fusione e conseguente perdita di identità.
Motivazione campata in aria, mache l’idea non avesse attecchito nell’intimo dell’attuale candidato presidente è stato chiaro fin da quando è cambiato il vento e Renzi ha lasciato il governo: mai più Ricci sentì l’esigenza di fondersi con l’Umbria, visto che a quel punto l’unione non avrebbe più giovato alla sua carriera.
Comunque l’attuale europarlamentare dem, in tema di confini regionali, non ha mai avuto uscite particolarmente felici. Quando divenne presidente della Provincia di Pesaro, nel 2009, ereditò dal suo predecessore, Palmiro Occhielli, che malgrado il nome ricorda Lenin più di Togliatti, la grana dei nove Comuni che volevano lasciare il territorio per andare in Romagna. Questioni identitarie? Non proprio. Una ben più banale insoddisfazione per l’amministrazione dem marchigiana.
La spinta secessionista era animata da disservizi e inefficienze nel campo della sanità, guarda caso l’argomento su cui l’ex sindaco sta attaccando l’attuale presidente, Francesco Acquaroli; peraltro anche in questo caso con argomentazioni deboli, giacché le Marche scontano la riforma fatta dall’ultimo presidente dem, che ha chiuso reparti e strutture, mentre il governatore in carica ha aperto cinquanta punti sanità, sta completando quattro ospedali e ha aumentato nel corso del suo mandato del 15% le visite.
Quando toccò a lui, Ricci non seppe fare pressioni sul suo partito, che allora governava la Regione, per ottenere un miglioramento del servizio per i suoi cittadini.
Si dirà: la sanità non è competenza delle province. Vero, ma non è così per le strade, altra ragione alla base delle velleità secessioniste dei Comuni marchigiani, che lamentavano buche, dissesti e mancanza di segnali e indicazioni.
L’allora presidente, contando sulla farraginosità della procedura di separazione - che richiede raccolta firme, consultazioni popolari, voti di due consigli regionali e del Parlamento - minimizzò il problema, poi prese in giro i richiedenti, infine tentò di sabotare i referendum municipali indetti per dirgli addio. In ultimo, fu costretto ad accettare la secessione, passando alla storia per l’uomo che si era perso sette comuni (Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, Sant’Agata Feltria, Talamello e San Leo, famosissimo per la Rocca), ai quali nel 2021 si aggiunsero Montecopiolo e Sassofeltrio. A seguito dell’operazione, le Marche hanno perso a beneficio della Romagna un parlamentare, una stazione dei carabinieri e una della Guardia di Finanza Per rifarsi Matteo, ormai diventato sindaco, nel 2020 si esibì in una sorta di anschluss, corteggiando con promesse da marinaio il comune di Monteciccardo, per convincerlo a unirsi alla sua Pesaro.
Il piccolo paese, di mille e seicento abitanti, aveva problemi di bilancio. Ricci promise un piano di investimenti di cinque milioni, garantendo autonomia decisionale. In realtà puntava ai due milioni l’anno per dieci anni in arrivo dallo Stato, con i quali però mirava a sistemare i conti del suo capoluogo piuttosto che quelli del villaggio. La questione è destinata a diventare oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte del deputato pesarese di Fdi, Antonio Baldelli, che ha un’agenda alta tre dita delle cose che l’europarlamentare ha detto ma si è poi scordato di fare.
L’ultimo numero del candidato del campo largo in tema di enti locali risale a ieri, quando ha promesso un’indennità di servizio agli assessori provinciali. Atto di giustizia o solito volantino elettorale? In ogni caso gli alleati anti-casta grillini hanno preferito non commentare...