Dopo o anche a causa di un confronto avuto con Giuseppe Conte alla festa nazionale dell’Unita, Dario Franceschini è tornato nella sua officina romana ex meccanica, ora tutta politica, con l’opinione rafforzata, e ribadita in una intervista a Repubblica, che è ormai finita l’epoca dei leader necessariamente o preferibilmente moderati per vincere le elezioni. E tentare, quanto meno, di governare il Paese, ormai di qualsiasi dimensione: negli Stati Uniti con Donald Trump come in Argentina con Javier Milei, e in Italia con Giorgia Meloni.
La Meloni non moderata, a dispetto di tutti gli applausi che si prende dai moderati quando ne accetta gli inviti a feste e congressi e parla col suo solito linguaggio, non fingendosi per opportunismo quella che non è; la Meloni non moderata, dicevo, piuttosto e inguaribilmente estremista, serve dialetticamente a Franceschini per sostenere che una coalizione alternativa al centrodestra debba essere capeggiata da un leader pure lui non moderato. Franceschini, 67 anni da compiere il mese prossimo, che gli amici e colleghi post-democristiani nel Pd definiscono parlando fra di loro “il più furbo di noi”, non so se più apprezzandolo o temendolo, con questo tipo di ragionamento sulla fine delle leadership moderate mi sembra ormai disponibile, e forse anche qualcosa in più di disponibile, ad un’alternativa al centrodestra guidata da Conte piuttosto che dalla Schlein. Se basterà Conte, con le sue ambizioni per niente personali, come ha tenuto a precisare ammettendole pubblicamente. E non sarà invece necessario spingersi ancora più avanti, visto che la sinistra radicale, per esempio, di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni ha smesso, per ora solo a livello locale, di considerarsi inferiore al movimento pentastellare di Conte.
E lo sorpassa qualche volta anche elettoralmente. Il moderatismo, chiamiamolo così, messo ormai in cantina, se non nei rifiuti, da un Franceschini che vi si ispirerà magari per scrivere, quando gliene verrà la voglia, uno dei suoi romanzi sempre gratificati di recensioni, ma in verità anche di rendite; il moderatismo, dicevo, ormai scartato da Franceschini, al massimo degno di essere appeso come foto d’epoca in qualche museo, o in una tenda di riserve nel cosiddetto campo largo della sinistra alternativa, sarebbe stato disarcionato dall’astensionismo. In un elettorato sempre meno predisposto alle urne, dove la segretaria del Pd Elly Schlein, sempre secondo Franceschini, avrebbe non so se più il vantaggio o lo svantaggio di pescare «voti di cui i palazzi non hanno il polso», bisogna gridare moltissimo, e farle davvero grosse, per essere avvertiti. Giocando non solo di rimessa, in concorrenza interna ed esterna, ma di attacco. Si spera fermandosi alle parole e non passando ai fatti. Franceschini, sempre lui, avvertito dai post-democristiani ancora presenti o tollerati del Pd, è convinto che un’auto rigenerata così nella sua officina non abbia soltanto la “possibilità”, insufficientemente attribuitale già da qualcuno al Nazareno e dintorni, ma anche la “probabilità” di vincere le elezioni, ora regionali e poi nazionali. E la sicurezza, oltre che la possibilità? Eh, a questo neppure lui si è spinto e si spinge ancora, furbo appunto com’è. Nel complesso, se questi sono i ragionamenti e i preparativi nel Pd pensando al rinnovo delle Camere, fra due anni, nel centrodestra possono sentirsi abbastanza al sicuro. E persino sperare non solo nella conferma della Meloni a Palazzo Chigi ma anche in una sua successione poi a Sergio Mattarella. «Secondo me ci pensa», ha detto Franceschini, aggiungendo quasi come scaramanzia per rasserenarsi da solo: «Se un leader di partito arriva in quel ruolo», al Quirinale, «cambia di fatto la natura del sistema». «Che e poi il motivo», ha aggiunto, furbissimo «per il quale nessun grande del passato è riuscito nell’impresa». Né Fanfani, in effetti, né Moro, né Andreotti. Ma è pur vero che c’è sem© RIPRODUZIONE RISERVATA pre una prima volta.