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Gaza, quei musi lunghi dei compagni in tv davanti alla tregua

Servirebbe un redivivo Berlusconi. Il Cav, in queste circostanze, dava il meglio di sé e li faceva impazzire: "Vi vedo tristi", avrebbe buttato lì infilzandoli
di Daniele Capezzonemartedì 14 ottobre 2025
Gaza, quei musi lunghi dei compagni in tv davanti alla tregua

3' di lettura

Mamma mia che musi lunghi, che facce tristi. Da un paio di giorni (ieri si è registrato il picco di questo curioso fenomeno) accendi la tv e, a fronte di notizie finalmente più rassicuranti che vengono dal Medio Oriente, in studio i visi dei compagni schierati – politici, commentatori, più i mitici “esperti” – sono pallidi, emaciati, gli occhi spenti, la bocca curva in una smorfia amara, le frasi fredde, a tratti perfino gelide, con osservazioni invariabilmente legate alle «criticità che restano», ai «nodi ancora da sciogliere», alle «incertezze che rimangono drammatiche». Servirebbe un redivivo Berlusconi. Il Cav, in queste circostanze, dava il meglio di sé e li faceva impazzire: «Vi vedo tristi», avrebbe buttato lì infilzandoli.

E in effetti oggi possiamo permetterci un sorriso davanti a una realtà che però – a pensarci bene – deve lasciarci sgomenti. È così forte la carica ideologica della sinistra italiana (politica e mediatica), è così tenace l'odio contro Trump, è così atroce la paura di un riverbero positivo anche solo indiretto a favore del governo italiano, che i nostri valorosi compagni non riescono nemmeno a fare buon viso a cattivo gioco, a simulare sollievo, o almeno a dissimulare l'amarezza.

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Quando si trattava di sfilare contro Netanyahu, di recitare slogan orrendi, di accendere fuochi nelle piazze, i nostri eroi avevano l'occhio vispo e l'aria delle grandi giornate. Tonici, energici ed energizzanti, recitavano a memoria le giaculatorie della profetessa Albanese, si emozionavano per l'“Italia migliore” (copyright Conte & Schlein), si squagliavano di gioia per i cortei fingendo di non vedere gli striscioni inneggianti al 7 ottobre o le bandiere di Hamas e di Hezbollah. Adesso che ci sarebbe da accogliere gli ostaggi liberati dopo oltre 700 giorni, le piazze sono vuote, e gli studi televisivi sono trasformati in camere ardenti. Lutto stretto, parole smozzicate, aria da funerale.

A ben vedere, è proprio azzeccata la battuta che Trump, ieri mattina, quando era ancora in viaggio verso Gerusalemme e la Knesset, ha rivolto a una giornalista: «War is over, do you understanding?». Quel «la guerra è finita, l'avete capito?» potrebbe essere tranquillamente indirizzato in Italia alla Redazione Unica, al Commentatore Collettivo. Delle due l'una: o qualcuno non l'ha capito (ed è grave), oppure (ed è ancora peggio) l'ha capito benissimo e non riesce a darsi pace. Non manca nemmeno (il solito Luca Telese è in prima fila, ma non c'è solo lui) chi invece si emoziona per i prigionieri palestinesi, incredibilmente equiparati agli ostaggi israeliani. Alé, mettiamo sullo stesso piano chi è stato sequestrato da Hamas mentre stava ballando a una festa musicale, e chi invece è stato incarcerato con accuse o condanne per terrorismo? Tutto uguale? Tutto intercambiabile? Direi proprio di n. Sarebbe un po' come confondere Donald Trump ed Enzino Iacchetti.

Intanto resta una grande emozione. Il 16 settembre scorso, a Milano, Mario Sechi ed io abbiamo potuto ascoltare presso la comunità ebraica di Milano la testimonianza di Ilal Gilboa Dalal, papà di Guy, uno dei ragazzi rapiti. Confesso che mentre quell'uomo parlava, guardavo verso terra, temendo che quel papà non avrebbe mai potuto sfiorare più la mano di suo figlio. E invece – nemmeno un mese dopo – è successo. C'è da piangere di gioia per questo miracolo della grande e buona politica. E c'è da compiangere chi, davanti a tutto questo, sa solo provare e trasmettere amarezza.

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