Sì, a pensarci bene la parola dell’anno che si chiude è proprio “libertà”. Ed ha ragione Paolo Giordano anche nello scrivere, come ha fatto ieri nell’editoriale del Corriere della sera, che, quando parliamo di libertà, non tutti diciamo necessariamente la stessa cosa. Per avvicinarci al suo significato più accettabile, e quindi anche per giustificare la nostra scelta, conviene però partire dalla definizione che del liberalismo, che è la tecnica politica per aumentare la libertà nel mondo, dette, ormai più di mezzo secolo fa, uno studioso italiano troppo presto dimenticato: Nicola Matteucci. A chi gli chiedeva di definire il liberalismo, egli rispondeva che era impossibile farlo perché esso vive nella storia ridefinendosi continua mente. Si tratta, continuava Matteucci, di una continua “risposta a sfida”: con il cambiare della realtà, cambia anche la “risposta liberale”.
Detto altrimenti: bisogna interpretare il proprio presente e, senza la garanzia di dogmi, capire quali soluzioni pratiche allargano gli spazi di libertà e quali invece li restringono. Messe così le cose, a me sembra che la grande sfida alla libertà sia stata portata negli ultimi decenni dal predominio in Occidente della cultura woke. Questa cultura, nata e radicalizzatasi prima nei campus americani e poi fatta propria dall’establishment politico e della comunicazione delle società avanzate, ha pervaso come una cappa l’intera nostra vita sociale. Essa non solo ci ha dato un’interpretazione del mondo nuova e in rottura con la nostra tradizione, ma ha preteso di essere l’unica interpretazione giusta, corretta, moralmente accettabile. Chi ha osato contraddire i suoi dogmi, è stato escluso dal contesto sociale. Il woke ha impoverito e reso intollerante il discorso pubblico nelle nostre società, cioè proprio in quelle democrazie che sul dibattito senza preconcetti avevano fondato la loro forza. Il dominio di questa cultura è stato così forte che certamente non poteva bastare un solo anno solare per un ritorno al buon senso e alla normalità. È però evidente che, nel 2025, la controffensiva, partita da quell’America ove continuano a forgiarsi buona parte dei nostri destini, ha cominciato a segnare i primi e inaspettati successi. Imperfetti, contraddittori, affidati a personaggi che possono non piacerci del tutto, ma comunque significativi. La storia non segue vie rette, ma questo non deve impedirci di andare alla sostanza delle cose. Ed è questo, a mio avviso, in una dimensione cosmico-storica, il merito dell’amministrazione Trump, il vero elemento di collegamento fra le tante e diverse anime che la compongono.
Certamente la libertà non coincide con l’assenza di vincoli, ma questi vincoli non possono consistere nel non poter dire certe parole. L’unico vincolo che accetta la libertà è quello che kantianamente ci impedisce di ledere l’altrui diritto ad essere liberi come vogliamo e siamo noi. Una libertà troppo vincolante genera conformismo, comportamenti standardizzati e prevedibili (anche e soprattutto dal potere, politico ed economico). In sostanza, la scelta della libertà come “parola dell’anno” è da me fatta con argomenti del tutto opposti a quelli di Giordano. Leggendo il suo articolo mi sono posto la domanda su cosa possa spingere molti a voler perimetrare in buona fede con tanti e rigidi limiti lo spazio di esercizio della libertà, che non li sopporta e che finiscono per contraddirla. Sono arrivato alla conclusione che si tratti di una sorta di gnosi, una tensione ad una “purezza” che non è di questo mondo. Una “purezza” non raggiungibile, ma nemmeno auspicabile. Una libertà che si dispiegasse senza frizioni genererebbe un mondo di morte e non di vita. La libertà vive nella lotta, nella tensione, cioè appunto nella ricerca di sempre nuove risposte alle sfide che ci si pongono. Il woke è l’antitesi della libertà anche perché è una cultura della rassegnazione, dell’indolenza, del disimpegno.




