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“Troppe prescrizioni inappropriatedi inibitori della pompa protonica”

Un position paper della Sige fa chiarezza sulle indicazioni d'impiego di questa classe di farmaci, il cui abuso sta determinando un aumento dei costi e un maggior numero di rischi per i pazienti

Maria Rita Montebelli
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Circa trent'anni fa – più precisamente nel 1989 - veniva introdotta nella pratica clinica la prima terapia basata sugli di inibitori della pompa protonica (Ipp), un gruppo di molecole in grado di ridurre l'acidità dei succhi gastrici per un periodo di tempo che va dalle 18 alle 24 ore. Da allora sono state sintetizzate numerose nuove molecole Ipp, che a loro volta hanno dato origine a moltissimi farmaci in grado migliorare nettamente l'approccio terapeutico a numerosi disturbi gastrici, tanto da ridimensionare il ruolo della chirurgia in molte patologie. Tra questi si annoverano varie forme e complicazioni del reflusso gastroesofageo, l'infezione da Helicobacter pylori – qui in associazione con uno o due antibiotici – le ulcere peptiche e gastriche, e la sindrome di Zollinger Ellison. Si impiegano inoltre come ‘gastroprotettori' in caso di procedure endoscopiche, per evitare sanguinamenti nel tratto digestivo superiore, oppure durante terapie prolungate con farmaci antinfiammatori non steroidi o aspirina, per prevenire e guarire ulcere gastriche dovute alla terapia. A seconda della natura della patologia da trattare e del parere del medico curante, gli Ipp vengono prescritti per periodi brevi oppure lunghi - laddove per brevi si intende inferiori alle 8 settimane – e possono essere assunti in maniera continuativa, saltuaria oppure al bisogno. Gli Ipp sono farmaci sicuri ed efficaci, tuttavia negli ultimi anni si stanno ponendo seri problemi riguardanti il loro impiego: ad oggi infatti è la classe di farmaci più usata al mondo, con consumi che aumentano annualmente a livello globale, e questo malgrado le precise indicazioni che dovrebbero limitarne l'uso a condizioni ben determinate. Una situazione paradossale, che lascia sorgere non pochi sospetti sull'appropriatezza delle prescrizioni. Si pongono dunque due importanti questioni alle autorità regolatorie: il progressivo e irreversibile aumento dei costi a carico dei sistemi sanitari e la maggiore insorgenza di effetti collaterali potenzialmente dannosi per i pazienti. In merito a quest'ultimo punto infatti, recenti studi hanno individuato una lunga lista di effetti collaterali che potrebbero essere collegati a queste terapie, tra cui disturbi a livello gastrointestinale, cardiovascolare, respiratorio, renale, cognitivo, osseo ed elettrolitico. È bene sottolineare che nessun farmaco è esente da effetti potenzialmente dannosi per chi lo assume, ma una prescrizione appropriata fa sì che i benefici superino i rischi, mentre avviene il contrario se le terapie vengono prescritte per condizioni che non le richiedono. La Società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva (Sige) ha deciso di far fronte a questa situazione nominando un panel di esperti che ha riesaminato la letteratura disponibile e ha quindi prodotto un position paper sull'utilizzo degli Ipp, al fine di ripristinare il corretto impiego di questa classe di farmaci nella pratica clinica quotidiana. Nel documento emerge che la percentuale di prescrizioni inappropriate per gli Ipp arriva addirittura al 40 per cento dei casi. Dalle raccomandazioni del position paper appare chiaro dunque che i medici prescrittori debbano essere più attenti a muoversi nell'ambito delle indicazioni d'uso, in modo da mantenere inalterato il rapporto rischio/beneficio per i pazienti e per evitare un ulteriore aumento della spesa pubblica. (MATILDE SCUDERI)

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