Curanto, un piatto rivedibile e una meravigliosa tradizione etilica

Una specialità cilena, simbolo dell'isola di Chiloè. Ecco, non così buona al palato. Ma quel che conta è l'esperienza che la precede e la accompagna
di Andrea Tempestinivenerdì 30 maggio 2025
Curanto, un piatto rivedibile e una meravigliosa tradizione etilica
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Si dice che il Cile sia «la Svizzera del Sudamerica» e l’espressione è ridicola: ridurre la questione ai parametri di stabilità economica e sicurezza è operazione piccina. Il Cile è tra i paesi più straordinari che abbia visitato e la Svizzera non lo è affatto. Certo è che dove c’è il soldo la cucina si eleva: in Svizzera per importazione, in Cile per tradizione e influenze: empanades, cazuela (uno stufato di carne che, verza esclusa, ha dei punti di contatto con la lombardissima cassoeula), mariscos. A farla da padrone, però, è la carne.

Poi c’è Chiloé, che non si mangia ma è un’isola poco battuta dai turisti. Si snoda nel nord della Patagonia, una diramazione della Carretera Austral, lembo di terra senza tempo, pochi umani, ancor meno che nel resto del Cile, punteggiata da 140 chiese in legno, incrocio tra architettura europea gesuita e tradizione locale; 16 di queste sono patrimonio Unesco, il che vale zero ma, giuro, sono di un oggettivo fascino decadente. A Chiloé ci si riduce a un ozioso zigzagare da una chiesa all’altra. Sublime.

Sull’isola nacque il curanto. Non è un piatto, ma un rituale che si tramanda da 11mila anni. Un pasto povero, nativo, ibridato dagli spagnoli nel XVI secolo. Incrociammo un cartello di plastica, in pennarello la scritta ¡Curanto hoy!, sufficientemente autentico per essere degno di attenzione. Entrammo in una stalla che puzzava di stalla e ci restammo un’infinità. Il curanto è lunga attesa. Per cucinarlo si scava nel terreno una buca profonda un metro. Sul fondo si dispongono pietre, sopra le quali si attizza un fuoco che le rende incandescenti. Poi si rimuovono le braci e nella fossa si adagiano gli ingredienti, a strati, separati da foglie di nalca (rabarbaro) o verza, cruciali per aromatizzare e trattenere il vapore. Veniamo agli strati: cozze, vongole, cirripedi (crostacei simili a vermi), pescado del dia, maiale, pollo, salsicce, wurstel. E patate in varie mescolanze. L’accozzaglia viene coperta con terra e teli inumiditi. La cottura richiede più di tre ore.

Arrivammo a buco scavato e braci da attizzare e l’attesa fu di cinque ore. Il rituale dell’attesa prevede cicchetti di licor de oro, distillato dai 20 gradi in su a base di siero di latte e zafferano. Tradotto, una sbronza colossale. Poi via i teli e le zolle, sui piatti una porzione di ogni strato, guazzabuglio psichedelico di pesci, carni, molluschi e patate. Non così bello a vedersi. Anche peggio a mangiarsi. Sarà stato il licor de oro, ma che fatica fingere l’apprezzamento che la combriccola di cileni, in ogni caso, meritava. D’altronde, cosa aspettarsi da un pastone di wurstel e cozze lessato sottoterra da una masnada di ubriachi. Però, signori, che divertimento... 

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