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Carne artificiale, i numeri su cui scommettono i big

Attilio Barbieri
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Il grande business del cibo artificiale, frutto di reazioni di laboratorio, è tuttora una grande promessa che può trasformarsi in breve tempo - al massimo una decina di anni in una solida realtà. Ma sul settore della carne coltivata e dei formaggi ottenuti dalla fermentazione proteica rimbalzano numeri incredibili. C’è chi parla di 25 miliardi di investimenti. E chi di complotti per accreditare i “nuovi alimenti” come il futuro inevitabile dell’umanità. Senza dubbio la lobby dei novel food, come li definisce la Commissione europea, è stata molto attiva in questi anni ed è riuscita a diffondere nell’opinione pubblica l’idea che la carne artificiale sia più pulita, meno inquinante e pure salubre, quando in realtà si sta scoprendo che genera emissioni climateranti da 4 a 25 volte superiori alla carne di manzo e siamo lontani dall’aver acclarato quali effetti possa avere sulla salute umana.


CIFRE ATTENDIBILI
Ma i numeri del settore, depurati da bufale e leggende metropolitane, descrivono comunque una filiera globale in grande fermento. Per evitare di cadere a mia volta nel ridicolo mi limito a elencare le cifre condivise da più fonti e sulle quali è possibile fare le verifiche del caso. Iniziamo dagli investimenti raccolti finora dalle startup del settore, che ammontano a circa 2,8 miliardi di euro. Tanti. Una montagna. Ma sideralmente lontani dai 25 miliardi di cui si favoleggia. Fra l’altro a fare la parte del leone, sulle 156 società attive nel segmento della carne artificiale sono una decina. Soltanto la Upside Foods, società di Berkeley, in California, ha raccolto 608 milioni di dollari, nel corso di tre diversi round di finanziamento. La società, nota per aver ottenuto lo storico via libera dalla Food & drug Administration americana alla vendita di polpette di pollo sintetico, conta fra i finanziatori di rilievo, Bill Gates, Kimbal e Christiana Musk (fratello e cognata di Elon), il patron di Virgin Galactic Richard Branson e John Doerr, storico finanziatore di attività nella Silicon Valley. Ma soprattutto ha potuto contare sull’intervento di alcune istituzioni finanziarie di livello mondiale: la Tamasek Holdings, fondo sovrano di Singapore, e l’Abu Dhabi Growth Fund, fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti. Fra l’altro la Upside Foods è il primo unicorno del settore: ha raggiunto di recente un valore stimato superiore al miliardo di dollari.

 


Ma la cascata di bigliettoni che ha investito le startup più attive, situate negli Stati Uniti e in Israele, rischia di produrre effetti in tempi medio lunghi. Secondo un diagramma che gira dallo scorso anno anche nelle banche d’affari impegnate a sostenere lo sviluppo dei cibi di laboratorio, la carne artificiale è destinata a competere in svantaggio sul mercato fino al 2035, quando si prevede che possa essere prodotta su larga scala e a costi competitivi . Approssimativamente a 8 dollari al chilogrammo, centesimo più, centesimo meno.
Giusto per avere un’idea, in questo momento, a fronte degli investimenti fatti, un chilo di hamburger usciti dal bioreattore costa circa 18mila euro. A pesare, tuttora, sui processi di produzione, sono le fasi più delicate: la moltiplicazione cellulare nei bioreattori e prima ancora le fasi di purificazione necessarie per evitare che si sviluppino infezioni batteriche.

PROCESSI INSOSTENIBILI
Così, in attesa di individuare la potenziale killer application, capace di rendere più accessibile l’intero processo, i banchieri d’affari restano molto prudenti sulle prospettive di sviluppo del business. Se oggi il fatturato del settore è stimato attorno ai 300 milioni di dollari, si prevede che entro il 2030 cresca fino a 2 miliardi, quando il settore si dovrebbe trovare alle soglie del boom di vendite, dopo aver centrato l’obiettivo di ridurre i costi di produzione. Naturalmente non è detto che le cose procedano linearmente e che si verifichino queste previsioni. Nella comunità dei produttori di cibi artificiali desta preoccupazione il caso di Beyond Meat, primo produttore mondiale di hamburger e formaggi (si fa per dire) a base vegetale. La società di Los Angeles, dopo essere uscita dall’elenco dei fornitori di McDonald’s perché i suoi hamburger non li voleva nessuno, è alle prese con una gravissima crisi di liquidità. E all’annuncio del probabile collocamento sul mercato di un considerevole pacchetto di azioni, il titolo ha perso in una sola seduta il 18%, precipitando al Nasdaq ai 10,47 dollari di venerdì dai 234,90 dei massimi raggiunti nel maggio 2019, a due mesi dal collocamento. Uno scivolone che equivale a una perdita di valore del 95,54%.

 

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