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Tra Renzi e Salvini vince il vero Don Matteo

Il nostro Padre Brown

Francesco Specchia
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Sarà anche raccomandato dall'Onnipotente e carezzato dallo Spirito Santo. Sarà antiquato, fintamente neorealista, così poco up to date e così tanto impasto mistico tra i vecchi telefilm di Derrick e del tenente Colombo. Ma, insomma, chapeau. Se Don Matteo, all'esordio della nuova serie, ottiene un risultato strepitoso, superando i 7 milioni di spettatori e il 30% di share medio (arrivando a toccare nel finale il 37%), be', ci dobbiamo chiedere il perché. In realtà lo faccio da dodici stagioni. Sì, certo, come dice la direttrice della fiction Rai Tinni Andreatta Don Matteo “colpisce il dato complessivo e, nel dettaglio, impressiona il successo fra i ragazzi (32% fra gli 8 e i 14 anni) e le ragazze (35% fra gli 8/14 e 37% fra i 15/24)”, il che stabilisce che l'evergreen sia. “esempio prezioso dello spirito generale della fiction del servizio pubblico”, ma non è l'unica ad esserlo. Sì', certo nel primo episodio Non avrei altro Dio all'infuori di me c'è l'idea del fil rouge dei dieci comandamenti, ma non è cosa inedita (vedi Domenico Iannacone su Raitre). Sì, c'era la novità Fabio Rovazzi nei panni del documentarista con la pistola che “con poche battute ha creato il panico a Spoleto”, a detta dei social. Ma non basta, onestamente, per connotare un successo del genere. Anzi. Tra l'altro, metteteci l'espressione un po' lignea -diciamo- del protagonista; o qualche personaggio tagliato con l'accetta; o certe improbabilità delle sceneggiatura che inserisce più morti ammazzati tra Spoleto, Bevagna e Gubbio della somma degli abitanti del luogo. Qualche anno fa il collega Antonio Dipollina su Repubblica, notando come la levigatissima serie Downtown Abbey venisse schiacciata dagli ascolti del vecchio, atletico prete di campagna aveva stigmatizzato il fatto che un Don Matteo, in fondo, gli italiani se lo meritano; non specificando, però, allora, se si trattasse di Terence Hill, di Matteo Renzi, o Matteo Salvini. Ma è così. Don Matteo, vivaddio, ce lo meritiamo. Come ci meritammo Guareschi, De Gasperi, i macchiaioli e le sortite sulla Valle del Po di Mario Soldati: l'anima antica e -come diceva Campanile- il respiro di un Paese civile. Parliamoci chiaro. Per noi tutti Don Matteo, il padre Brown d'Italia, il capolavoro narrativo delle ieraticissima Lux Vide, resta un toccasana dello spirito. Lo è soprattutto grazie al il solito Terence Hill con il suo sorriso triste, che risolve i casi sfruculiando nelle coscienze nonostante i marescialli dei carabinieri goffi e volenterosi, con le perpetue petulanti e i sacrestani un po' sfigati. Tra l'altro, io so tutto di Terence Hill-Mario Girotti, giustamente celebrato da Fabio Fazio qualche tempo fa. Dall'infanzia in Germania al ritorno in Umbria, dai peplum dai primi film con Maselli Bolognini, Visconti e Pontecorvo, ai fotoromanzi, alla carriera con Bud Spencer. Credo risulti ancora il secondo italiano più famoso del mondo (il primo è Bud). So della morte del figlio Ross a 16 anni, che l'ha avvicinato al sacro; conosco bene i telefilm di Lucky Luke scritti e diretti e dedicati all'amore per i suoi ragazzi; ho tastato con mano la sua passione per Don Camillo e, quindi per Don Matteo. Hill è lo Spencer Tracy della mia generazione. Gli voglio bene a tal punto da averlo bonariamente criticato. Il più grande rammarico della mia vita è avergli fatto, quasi vent'anni fa una lunga e appassionata intervista e averla potuta firmare, per motivi contrattuali, soltanto con uno pseudonimo. E il racconto di Terence è quello di Don Matteo. Dove, nello sciabordio di una sempre rassicurante struttura iterativa, si staglia sempre l'Umbria che ha più delitti e storiacce da raccontare dell'Oregon dei fratelli Cohen. Insomma, arrendiamoci. Se perfino le repliche di Don Matteo sfasciano l'audience, be', un motivo ci sarà. E non è detto che sia di questa terra…  

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