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Isola delle rose, la verità: inno al Sessantotto? Quello che non sapete: il fondatore era un repubblichino

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Hanno provato a descriverla come una Comune sessantottina o come un paradiso fiscale guidato, in senso letterale, da un governo balneare. Ma l'Isola delle Rose, la piattaforma sorta nel mare Adriatico nel 1968 e autoproclamatasi Stato libero, era qualcosa di più e di diverso: attingeva ad altri riferimenti (il suo ideatore era un ex repubblichino), si ispirava a esperienze anarco-libertarie di matrice dannunziana, e aveva lo scopo ambizioso di essere una terza via, tra l'Occidente e il comunismo, tra l'America e la Russia. Il film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose di Sydney Sibilia con uno straordinario Elio Germano, distribuito ora da Neflix, rende giustamente merito a quell'impresa utopica dell'ingegnere bolognese Giorgio Rosa che il 1° maggio 1968 instaurò, a 11,6 km al largo delle coste tra Rimini e Pesaro, in acque internazionali, una comunità indipendente col nome di Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose.

Sarebbe riduttivo tuttavia pensarla solo come un luogo di svago, dove turisti provenienti dalla Romagna e dalla Germania andavano a ballare e scatenarsi in piena orgia ribellista da Sessantotto; o come un porto franco offshore dove poter eludere il pagamento delle tasse, grazie a una furba posizione strategica che la rendeva terra di apolidi, non soggetti ad alcun Erario.

Uguaglianza - E, ancor più, sarebbe sbagliato immaginarla come un'isola rivoluzionaria, dove si predicava l'uguaglianza e si sfidavano i monopoli a suon di radio libere, all'insegna dei santini del pantheon di sinistra, da Marcuse a Pasolini, da Che Guevara a Martin Luther King, come ha frainteso Walter Veltroni nel libro del 2012 L'isola e le rose. Per non parlare dell'ipotesi che fosse una specie di comunità hippie e pacifista, rifugio dei figli dei fiori, che pertanto avrebbero intestato l'isola alle rose. O addirittura un'occulta base sovietica, circondata e protetta da sommergibili russi. La Repubblica Esperantista aveva semmai qualche legame con la Repubblica Sociale, dal momento che Giorgio Rosa era stato, a 18 anni, camicia nera a Salò. La sua utopia nasceva dal rifiuto di un'Italia che non gli piaceva, quella nata nel Dopoguerra, e dal sogno di creare una piccola patria, una micronazione, con una vocazione universale. Non a caso, nell'Isola delle Rose era stata proclamata lingua ufficiale l'esperanto, era stata creata una valuta che non era la lira ma il mill (una moneta transnazionale e letteraria, già citata da Mark Twain) e si rivendicava una sovranità perduta in un mondo dominato dalle grandi potenze. Una comunità glocal dove, in uno spazio di soli 400 metri quadri, si aveva l'ambizione di radunare tutti gli uomini che non si sentivano rappresentati dagli Stati esistenti. Ma nel mito dell'Isola delle Rose riecheggiava soprattutto l'impresa dannunziana di creare uno Stato libero dalle pastoie della burocrazia e della politica politicante, un luogo dove Idea e Azione coincidessero e le cui guide fossero uomini e donne intraprendenti. Una Fiume in mezzo al mare. C'era, nella missione di Giorgio Rosa, l'arditismo dell'opera proibita, l'eroismo del colpo di mano (più volte lo Stato italiano provò a frenare la costituzione di quella realtà e, durante la sua breve esperienza, mandò forze di polizia per soffocarla), e c'era la voglia di osare, fregandosene delle leggi e dell'ordine costituito. Un po' di superomismo un po' di dandismo eccentrico. Come per D'Annunzio, c'era in Rosa il rifiuto dello Stato catto-liberale a vantaggio di uno Stato libertario. Come il Vate, anche Rosa non si fece corrompere dalle lusinghe del governo italiano che provò a farlo desistere dall'impresa, assicurandogli in cambio la concessione di due stabilimenti balneari (che fine borghese sarebbe stata per un visionario!). E come il D'Annunzio che diceva «Io e i miei compagni non vorremmo più essere Italiani di una Italia rammollita», anche l'ingegnere bolognese, nel vedersi contrastato dai Cagoia di turno al potere, pronunciò la frase: «Io mi vergogno di essere italiano». Ma, come per la quasi dirimpettaia Fiume, anche la vita dell'Isola delle Rose fu breve, durò appena nove mesi, il tempo di una gravidanza, fino al febbraio 1969. E forse non è una coincidenza che nel film il regista immagini per lei una fine simile a quella della Fiume dannunziana, con l'allora governo Leone che invia l'incrociatore Andrea Doria per bombardare la piattaforma, prima di cambiare idea e farla saltare con le mine. Sorte che toccò davvero a Fiume, finita sotto i colpi di cannone dell'Andrea Doria in quello che rimase celebre come il Natale di sangue. Così come non è sicuramente un caso che, in occasione dell'affondamento dell'isola, Rosa fece emettere un francobollo commemorativo che evocava il proprio passato repubblichino: Hostium rabies diruit opus non ideam (La violenza dei nemici distrusse l'opera, non l'idea), recitava la scritta in latino, citazione di quell'Hostium rabies diruit apparso sui francobolli della Rsi nel giugno 1944, e raffiguranti i monumenti distrutti dagli Alleati. In una delle sue ultime interviste Giorgio Rosa descriveva così quel sogno infranto: «Era un'impresa modesta rispetto alle costruzioni per l'estrazione del petrolio. Ma l'avevo fatta perché io sono sempre stato per la libertà». Un repubblichino libertario e visionario che ora avrà trovato, nell'aldilà, la sua Atlantide felice, l'Isola che non c'è.

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