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Sanremo 2023, Fabio Concato 'rovina' il finale: "Chi vince", tutto scritto?

Daniele Priori
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Fabio Concato compone, scompone e ricompone musica da una vita. Stagioni che cambiano e che lui ci racconta con la serenità e la pacatezza di chi è capace di accompagnare e accompagnarsi attraverso il tempo. Fresco vincitore del premio Tenco alla carriera «è importantissimo che vada avanti perché ha sempre tirato fuori cose molto particolari» e dell’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano «una grande gratificazione, come le stellette per i militari, per noi artisti che non facciamo scatti di carriera». A fine maggio ne compirà 70, un anno speciale che il maestro sta vivendo in tournée da “musico ambulante”, questo il titolo dello spettacolo. Alla vigilia del Festival di Sanremo ci mette in guardia: «Occhio che non sono più gli anni nei quali la settimana prima sulla copertina di Tv Sorrisi e Canzoni c’era già la foto del vincitore sicuro. Oggi potrebbe vincere chiunque, anche un giovanissimo rapper e sarebbe giusto così, come pure Giorgia che canta come una belva ed è ancora una ragazza. A parte il fatto che non ci sono le vecchiette quando hai quel talento. Le grandi artiste hanno cantato fino a 85 anni...».

 

 

 

Perché sia lei sia suo padre, che era jazzista, avete scelto come cognome d’arte quello di sua nonna paterna?
«Sa che non ne abbiamo mai parlato in realtà. I nonni erano due cantanti lirici: Nino Piccaluga e Augusta Concato. Quando ho voluto scegliere un nome d’arte ho preso Concato perché mi pareva suonasse meglio. Mio padre suonava il jazz per divertirsi. Era un rappresentante d’occhiali e quando tornava a casa me lo godevo perché tirava fuori la fisarmonica, la chitarra metteva su i dischi e se ne accorgeva tutto il condominio. Questo mi ha condizionato profondamente».

Oltre il jazz quali sono state le sue radici musicali?
«Un percorso musicale del tutto identico ai ragazzi della mia generazione: sono passato dai Beatles a tutte le bande rock e progressive. Poi è successo a una certa età, intorno ai 50 anni ho riscoperto il jazz. È stato un richiamo. Quando voglio sentire un bel disco metto un Bill Evans del’68 non cose più recenti, nonostante i jazzisti contemporanei siano meravigliosi».

Coi quali ha anche collaborato molto.
«Certamente. Quando ascolto Paolo Fresu vado sulle stelle. Mette le note giuste che restano nel cuore. Lui è il Chat Baker di questi anni, ma anche Fabrizio Bosso con cui abbiamo fatto tour strepitoso. Fino al lungo sodalizio col Paolo Di Sabatino Trio».

Un musico ambulante, milanese doc, figlio di jazzista che esordisce nel cabaret. Da dove nasce questa passione che le ha portato bene?
«Il cabaret era una roba fantastica. Avevo vent’anni. È stata una palestra micidiale. Come nei jazz club avevi le persone a 15 centimetri dalle tue gambe. Non vogliono perdersi un respiro. In più lì c’era anche il problema col cameriere che apriva lo spumante mentre tu andavi a memoria. Sono stati due/tre anni molto belli con la regia di Gianfranco Funari».

Che figura era Funari fuori dalle scene?
«Un uomo fantastico al di là di quello che diceva e come appariva in tv. L’ho conosciuto così profondamente in un momento in cui avevo grande bisogno di lavorare, tra la fine degli anni ’70 e gli inizi ’80. C’era il problema di pagare l’affitto e le bollette. Gianfranco mi disse di seguirlo nelle sue serate, dandomi anche la possibilità di eseguire miei pezzi. Andò avanti per quasi un anno. Ho un ricordo straordinario di lui. Era di una generosità e umanità che ho trovato poche volte nella vita».

Con le sue canzoni ha anche cantato, con leggerezza e ironia sana, argomenti che oggi sarebbero a rischio bodyshaming. Rosalina, per esempio, nel 2023 l’avrebbe scritta esattamente allo stesso modo?
«Certamente sì. Così come nel 1988 ho scritto la canzone per Telefono Azzurro che poi ho regalato all’associazione. Quel pezzo era un pugno nello stomaco, ma la musica serve anche a questo. È più potente dei dibattiti. Della stessa epoca è anche Ti ricordo ancora che chiamò molte associazioni gay a teatro. Era il 1985...».

 

 

 

Anni difficili da quel punto di vista...
«Veramente difficili. In quegli anni i gay vivevano come i topi. Fortunatamente c’è stata davvero una liberazione in tal senso. Fatto sta che quella canzone non c’entrava niente con l’omosessualità eppure quella carezza di un bambino delle elementari a un compagno ha acceso dibattiti. Solo il maestro aveva capito un’altra cosa. Ma era un maestro antico, come dico nella canzone».

Lei ha partecipato più volte al Festival. Le piace come sta prendendo forma questo quarto Sanremo secondo Amadeus?
«Da quando c’è Amadeus lo guardo un po’ di più. Non riesco a vederlo tutto. Servirebbe una pastiglietta per arrivare alla fine.... Cast sempre ben selezionati. Amadeus mette dentro cose particolari che spaccano come i Maneskin. Loro sono una banda davvero particolare di rocker veri che magari quelli della mia età avevano già sentito...È normale che piacciano ma non li definirei così rivoluzionari».

Con i giovani autori si confronta, la cercano?

«No perché sono vissuto come un artista molto istrionico e solitario anche se poi non è vero. Molto serio... Ma questo dipende dai miei tratti somatici. Non mi si vede tutti i giorni alla tv quindi non viene in mente di chiamarmi. Io li ascolto quando riesco a capire che cosa dicono. C’è qualcuno di loro che scrive molto bene. Cose potentissime. Quello che manca sempre è la musica che è mortificata. Qualcuno sta cercando di farne un po’ di più e sono convinto che tra qualche anno ci saranno di nuovo le belle canzoni. Sarebbe bello se fra 40 anni cantassero ancora qualcuna delle canzoni di questi ragazzi, come capita con Domenica bestiale o Futura di Lucio... ma non lo credo e mi dispiace». 

 

 

 

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