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Melozzi, il maestro dei Maneskin asfalta la sinistra: "Ha ucciso la musica"

Daniele Priori
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Il Maestro Enrico Melozzi è di Teramo, come Marco Pannella. E con il leader radicale condivide un’irrequietezza caratteriale che si trasforma in forza di pensiero, slancio, coraggio artistico e idee chiare. «Lo sa che Marco fece eleggere in consiglio comunale nella mia città anche Ivan Graziani. Due grandi teramani!». Parliamo d’Abruzzo perché incontriamo il direttore d’orchestra, compositore e musicista a Pescara, all’indomani della Notte dei Serpenti, “concertone” che Melozzi ha voluto ideare dopo essere stato maestro concertatore, due anni fa, in un’altra notte di musica popolare. Quella della Taranta. E' diventato famoso per il suo ciuffo e per aver diretto a Sanremo tutti gli artisti che poi sono esplosi: da Achille Lauro con Rolls Royce «dovreste vedere come mi guardavano i musicisti classici dopo quell’esperienza» ai Maneskin con Zitti e buoni. «Sono stato uno dei pochi a credere da subito che avrebbero raggiunto almeno il podio a Sanremo».

 

 

 

Maestro, si può dire che questa Notte dei Serpenti per lei è un ritorno alle origini?
«Certo. Ed era un sogno che avevo nel cassetto da tantissimi anni. Anche perché ho conosciuto la musica popolare di tutto il mondo. Penso alla danza della jota che a Saragoza viene valorizzata tantissimo, quando in realtà è partita dall’Abruzzo, passata per il Carnevale di Venezia e da lì arrivata in Spagna. Così ho pensato, anche grazie all’appoggio della giunta regionale che ci ha creduto di proporre un restyling, un refresh, un revamp, come dicono all’Eurovision, della nostra musica popolare. Oggi sarebbe bellissimo vederla proposta a Sanremo, come è accaduto in passato con altre lingue regionali».

Cos’ha rappresentato per lei uomo di cultura, di spettacolo e abruzzese doc il terremoto a L’Aquila?
«E' stato come un anno zero. Quel terremoto, evento naturale catastrofico, ha messo in ginocchio tutto ma anche messo in risalto il pressappochismo di chi ha gestito l’Abruzzo fino a quel giorno lì. Nei luoghi dove ci sono stati più morti, gli antichi abruzzesi non avrebbero mai edificato. Con la ricostruzione, però, L’Aquila sta diventando un incanto. Gli abruzzesi hanno capito che bisogna ripartire da un approccio antico nel fare le cose per bene. Il nostro vero patrimonio artistico parte dalle tradizioni».

Cosa la porta a essere un’anima artisticamente e musicalmente così inquieta?
«Potrei risponderle la noia. Cambiare genere mi crea una comfort zone maggiore. Però probabilmente, riflettendo più a fondo, potrei dirle che proprio questo mio modo di essere rappresenta l’approccio più sincero e antico al mestiere del musicista. Mi spiego meglio. Credo che probabilmente nel ’600 o nel ’700 fosse più normale essere simile a me che a musicista standard contemporaneo di oggi che ha bisogno di dividere e etichettare tutto per generi. Una tendenza iniziata dopo la seconda guerra mondiale. Fino alla prima metà del ’900 il musicista era musicista. Sapeva fare tutto. Stravinsky con la musica popolare compose la Sagra della Primavera. Beethoven si lancia nel Triplo Concerto o in varie Polacche. Mozart scrive la Marcia Turca perché i turchi erano passati da Vienna ed erano di moda.
Non c’era la necessità tutta moderna di etichettare».

Lei, però, organizza anche dei rave party di musica classica. Ci spieghi di che si tratta.
«Il rave party della musica classica nasce proprio come grande provocazione verso il mondo classico ormai in agonia. Un mondo apparentemente ricchissimo ma in realtà moribondo o probabilmente già morto che non riesce a capire i giovani ai quali piace andare a sballarsi ai rave. Noi anziché la droga e la techno abbiamo messo Bach e Beethoven suonati dal vivo a palla tutta la notte, ottenendo un successo clamoroso. Al punto che l’edizione di quest’anno, andata in scena due settimane fa, l’ha voluta Riccardo Muti al Ravenna Festival. Un’esperienza fantastica che però, forse, mancava del gusto della clandestinità totale delle prime edizioni. Anche perché sono certo che il decreto anti-rave non ci avrebbe minimamente sfiorato perché non è certo rivolto a questo tipo di forme d’arte. La musica classica d’altra parte è un bene di prima accoglienza».

 

 

 

Prima di Ravenna dove l’avete fatto?
«Beh famosissima quella allo Spin Time di Roma (un centro culturale occupato, ndr) in cui il cardinale elemosiniere del Papa venne a riattaccare la corrente proprio quando c’eravamo noi. Anzi, proprio quell’esperienza mi fa suggerire al ministro Sangiuliano la necessità di liberalizzare del tutto la musica acustica che si fa senza amplificazioni. Basterebbe un piccolo decreto».

A proposito, le è mai capitato di essere stato osteggiato dalla politica per delle sue idee?
«Io non sono stato mai appoggiato dalla sinistra, anche se istintivamente sono di visioni progressiste. Nonostante tutto ciò da sinistra non ho mai ricevuto difese o proposte».

A parte il suo vissuto, la sinistra gestisce da sempre il potere in ambito culturale. Non trova?
«La sinistra ha gestito la cultura in Italia per tantissimi anni, praticamente sempre. Io credo, però, che gran parte del decadimento culturale del paese, a partire dal cambio di destinazione d’uso teatri, alla loro musealizzazione dell’opera e del balletto, fino alla tragedia che sta colpendo gli enti lirici sia proprio colpa di questa sinistra. Ottant’anni fa la Rai aveva decine di orchestre, oggi ne ha una sola».

Lei sta descrivendo una regressione più che un progresso culturale...

«Ma certo. Siamo regrediti. I musicisti esecutori fino alla prima metà del 900 erano 150 mila volte più bravi, come i cantanti e i compositori. Il movimento delle avanguardie nel secondo dopoguerra è stato finanziato dagli americani per distruggere le nostre radici. Siamo arrivati all’esaltazione dell’astratto, del nulla, quando il concetto di composizione, il pentagramma con Guido d’Arezzo sono nati in Italia. Serve gente capace di amministrare la bellezza, non gli intellettuali chiusi nei circoli e nelle torri d’avorio completamente incapaci. Ci sono presidenti di enti sinfonici nazionali che scrivono musica che potrebbe funzionare solo per film horror, mentre il pubblico deve uscire dal teatro urlando, piangendo e ridendo. L’arte deve restare appannaggio degli artisti. Proprio l’esperienza del Teatro Valle, ultrapolitica, dimostra che cittadinanza e artisti uniti sanno far funzionare e esplodere il cartellone di un teatro, altro che i corsi universitari per gestire la cultura! Servono artisti non manager. Anche i conservatori per i valori che esprimono oggi andrebbero aboliti».

Lei, in questo senso, creando i 100Cellos è riuscito ad affermare questo pensiero suonando...

«Esattamente. Grazie ai 100Cellos si sono decuplicati gli iscritti nelle classi di violoncello. Abbiamo lanciato il violoncello come strumento pop non per suonare solo Bach ma per portarlo in spiaggia. Abbiamo aperto le porte senza fare provini e audizioni ma prendendo tutti con l’obiettivo di suonare insieme e creare emozione. Il sogno sarebbe vedere i Maneskin che suonano coi 100Cellos!».

 

 

 

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