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Giorgio Panariello, lo sfogo: "Tutto complicato, a far ridere si rischia grosso"

Hoara Borselli
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 «Essere comici è complicatissimo, di questi tempi. Non si può più scherzare su nulla. In tv bisogna stare attenti a tutto. Quando pensi ad una battuta devi prima capire quale categoria potrà offendersi...». A parlare è Giorgio Panariello, classe 1960. Impegnato nel programma di successo “Tale e Quale Show” insieme al fraterno amico Carlo Conti, dal 25 Novembre sarà in tour nei maggiori teatri italiani con l’altro amico di sempre, il cantautore Marco Masini. Comico, attore e regista toscano, Panariello ha deciso di raccontarsi a Libero. Tutti conoscono il Panariello che riesce a far ridere milioni di persone, io ho voluto scavare nell’anima di un uomo che nella comicità ha trovato il suo riscatto.

Giorgio, oggi ti vediamo impegnato nel programma di “Tale e Quale Show”. Ti manca un programma tuo? Un “one man show“ alla “Torno Sabato“?
«Sì, mi manca molto. Io sono nato per fare quello. La mia carriera è nata nei teatri dove ero solo davanti al pubblico». 

Da cosa pensi dipenda il fatto che non te lo propongano?
«Che è sempre più difficile trovare personaggi nuovi da portare in scena. Una volta si scriveva una battuta un mese prima e quando andavi in onda era ancora valida. Adesso se la scrivi il lunedì mattina, il lunedì sera non è più buona perché già l’hai sentita sui social».

Quanto il politicamente corretto è diventato un limite per chi fa comicità?
«Noi comici toscani siamo stati spesso tacciati di volgarità per i nostri modi di portare la battuta. Io non mi sono mai fatto bandiera di quello, però non posso negare che ormai non si può più scherzare su nulla. È diventato complicatissimo. Non si può toccare più nessuna categoria che immediatamente vieni colpevolizzato. A me è capitato».

Ce lo racconti?
«In un mio spettacolo, portavo in scena Renato Zero che rivolgendosi a Marco Masini gli diceva : “Il boa di struzzo lo porto io perché lo ho fresco, ho lo struzzo a casa...”. Gli animalisti sono insorti e hanno immediatamente scritto per chiedermi conto di quella battuta che mortificava gli struzzi. Ma non solo».

Chi hai fatto arrabbiare ancora?
«Sempre loro, ma è cambiato l’animale. Portavo in scena un mago che ipnotizzava una gallina e spiegavo ironicamente il trucco per addormentarla. Anche in quel caso, infuriati mi hanno scritto: “Lei come si permette di fare battute sulle galline!”».

Con gli animali non ti è andata molto bene.
«Ormai quando scriviamo le battute ci dobbiamo porre il problema. Se voglio parlare di coriandoli devo prima capire se l’associazione dei coriandoli potrà o meno offendersi. Soprattutto in tv bisogna stare attenti a tutto. In teatro godiamo ancora di una certa libertà».

Giorgio, il comico è ciò che hai sempre voluto fare da piccolo?
«Basta questo per farlo capire. A sette anni prendevo la spazzola di mia nonna, mi chiudevo in bagno e mi intervistavo da solo».

E cosa ti chiedevi?
«Con la spazzola come microfono mi rivolgevo queste domande: “Allora Panariello, ci racconti come sta andando il suo successo”».

E cosa rispondeva Panariello a Panariello?
«Tutto compiaciuto rispondevo: “Sì, sto avendo un grandissimo successo, sono molto felice...”. E iniziavo monologhi».

Anche a scuola ti facevi le interviste?
«No (ride), ancora di più. Facevo un gran casino. Lo scopo non era disturbare i miei compagni ma attirare la loro attenzione. Volevo che tutti stessero ad ascoltarmi».

Che scuole hai fatto?
«La scuola alberghiera. Quando ho finito la terza media i professori mi diedero l’indicazione di fare un percorso di studi che mi portasse a contatto con il pubblico. Chi meglio del cameriere ti porta a contatto con il pubblico? E allora scelsi quella».

Sei diventato un bravo cameriere?
«Bravissimo. Dico solo che nei ristoranti dove lavoravo tutti volevano me perché facevo spettacolo.
Tra un piatto e l’altro facevo un’imitazione, raccontavo una barzelletta. Qualsiasi cosa che ho fatto nella mia vita si trasformava in occasione per fare spettacolo».

Hai fatto molti lavori prima di diventare il Panariello che conosciamo tutti oggi?
«Ho fatto di tutto: ho lavorato al Carnevale di Viareggio, ho portato la spesa a casa delle persone, ho fatto il raccattapalle, ho lavorato al maneggio di cavalli, ho venduto pentole. In tutto ciò che facevo ci mettevo dentro lo spettacolo».

Facci un esempio
«Ricordo quando vendevo le pentole. Una volta si facevano le dimostrazioni nelle case. La regola era questa: “Signora, le regalo una pentola se domani a casa mi fa trovare almeno dieci persone”. E io dovevo convincere i presenti che quelle pentole funzionavano e venderle».

Ne hai vendute molte?
«Nemmeno una».

Come nemmeno una?
«Pentole vendute nessuna, in compenso nelle case c’erano sempre trenta quaranta persone perché facevo spettacolo».

E veramente non sei mai riuscito a convincere uno solo dei presenti?
«Tu la compreresti mai una pentola da Renato Zero?».

In effetti... Un altro ricordo?
«Questo è quello che mi ha veramente fatto innamorare del palcoscenico da cui non sono più sceso. Lavoravo per le radio libere e una volta fecero una serata in piazza con circa mille persone presenti. Io feci qualche imitazione, qualche battuta e ricordo che una decina di persone rise e mi fece un applauso. Per me è stato tutto.
In quel momento ho acquisito la prima consapevolezza. La consapevolezza di poter andare avanti».

Dieci persone che poi sono diventate milioni.
«Sì, ma c’è una differenza. Oggi so cosa può o meno far ridere le persone. Difficile quando scrivo una battuta, non riuscire a prevedere la reazione del pubblico. Credetemi, quelle dieci timide risate e quell’applauso di incoraggiamento o forse consolazione non me le potrò scordare mai».

Recentemente ho intervistato il tuo fraterno amico Carlo Conti che ci ha raccontato un aneddoto con te protagonista. Ci disse che in uno spettacolo che facevate insieme, faceva due scalette : una con te e una senza perché spesso non trovavi i soldi della benzina per arrivare.
«Verissimo (ride). Era il periodo del programma “Vernice fresca”. Con gli spettacoli non guadagnavo una lira. Avevo una situazione familiare estremamente delicata per cui la maggior parte dei soldi mi servivano per mangiare. Spesso capitava che se la serata da fare era un po’ più distante e non potevo raggiungerla con il treno. Ero obbligato a prendere la macchina Era un vero casino perché dovevo chiedere alla zia se me la prestava o ad amici se mi accompagnavano. Qualche volta capitava che mi prestassero la macchina ma era senza benzina e non sempre avevo i soldi per farla. Una precarietà che non garantiva la mia certezza in scena».

Un altro aneddoto che ti piace ricordare?
«Io, Pieraccioni e Carlo si faceva “Vernice Fresca” da un piccolo studio a Firenze che si trovava all’interno di un palazzo. Ogni sera arrivava sempre più gente per vederci dal vivo e i condomini del palazzo iniziarono a lamentarsi. Chiamarono persino i Carabinieri».

A quel punto cosa avete fatto?
«Conti disse che non era più possibile continuare lì e trovò uno sponsor che ci permise di avere una regia mobile. Ci spostammo in una discoteca a Campi Bisenzio. La sera che arrivai ricordo il parcheggio strapieno. Ero convinto che tutta quella gente fosse lì per ballare quindi mi diressi all’entrata principale con il mio trolley pieno di costumi quando venni fermato da un buttafuori che mi disse: “Panariello, dove vai?”, Devo fare la serata, risposi io. Mi consigliò di entrare dal retro. Io non capii il perché. Poi lo hai capito? Sono entrato, c’erano 5000 persone sedute. Non scorderò mai una ragazza che appena mi ha visto mi è saltata addosso e a seguire anche altri, che mi hanno letteralmente strappato i vestiti di dosso. Io mi sono sentito uno dei Take That, uno dei Beatles. Una cosa inimmaginabile. Quel parcheggio pieno era per noi».

Carlo Conti ha raccontato anche di uno spettacolo con sette spettatori paganti.
«E chi se lo scorda? Soprattutto chi si scorda che dopo quello spettacolo trovammo pure la multa tutti e tre sulla macchina. In sostanza abbiamo lavorato per ripagarcele.
Anzi, ci abbiamo rimesso».

Una grande gavetta alle tue spalle.
«Dico solo che se qualcuno potesse vedere oggi la registrazione della mia vita non so in quanti avrebbero voglia di intraprendere questa strada. Probabilmente mollerebbero prima o nemmeno inizierebbero».

Una volta hai detto che all’inizio della carriera ti consigliarono di cambiare il tuo cognome perché suonava male per un artista.
«Mi dissero tutti che Panariello non andava bene. Troppo lungo. Difficile da pronunciare. Non scherziamo! Io sono orgoglioso del mio cognome. E sai perché non lo avrei mai cambiato?».

Perché?
«È un cognome legato a grandi problemi che ho avuto nella mia famiglia. Nella mia zona non era ben visto. Io non me ne sono mai vergognato. Anzi! Proprio quel quello ho voluto tenerlo e riscattarlo».

Quanto c’è nel Panariello che tutti noi conosciamo, delle difficoltà che hai vissuto da piccolo?
«I comici hanno quasi tutti un unico comune denominatore: partono sempre da uno svantaggio sociale. Dalla fame, dai problemi in famiglia. Quando ti trovi a vivere difficoltà importanti le strade sono due: o ti abbatti o reagisci per riscattarti».

E tu hai reagito.
«Beh, la mia vita non è stata semplice. Sono stato adottato dai miei straordinari nonni, mio padre non l’ho conosciuto e mia madre l’ho vista pochissimo. Difficoltà ne ho vissute tante ma per carattere ho sempre cercato una via di fuga e lo dimostra anche come dormo».

Perché come dormi?
«Con una gamba fuori dalle lenzuola anche se fuori c’è un freddo polare. Gli psicologi mi hanno sempre detto che lo faccio perché inconsciamente voglio tenermi sempre una via di fuga. La comicità, l’ironia, la ricerca della risata è sempre stata la mia via di fuga».

Cosa ti è mancato di più?
«La serenità. E non ho mai pensato dipendesse dalle mancanze economiche. Il mio motto è sempre stato questo: “basta che sei sereno, poi, per il mangiare, un modo per arrangiarsi si trova sempre».

Oggi Giorgio Panariello questa serenità l’ha trovata?
«Sì!».

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