Pupi Avati piange miseria? Ma... lo finanzia il governo

di Pietro Senaldimercoledì 21 maggio 2025
Pupi Avati piange miseria? Ma... lo finanzia il governo
5' di lettura

Pupi il puparo. A tirare le fila della polemica tra le star e il governo sui generosi finanziamenti pubblici al cinema c’è anche lui, Pupi Avati, l’86enne maestro bolognese della macchina da presa. La vicenda è nota: nel 2017 l’allora ministro alla Cultura dem, Dario Franceschini, varò una riforma che fece piovere sul settore una valanga di denaro. Le elargizioni annue dello Stato a produttori e registi sono schizzate da 400 a 800 milioni sulla carta, oltre il miliardo nella realtà. Ora il ministero dell’Economia chiede di chiudere i rubinetti - questione economica, non ideologica- e lo star system cerca strenuamente di difendere i privilegi, primo fra tutti i lauti guadagni. Siccome non è elegante dirlo, i cinematografari la buttano in politica, accusano il ministero della Cultura e tentano la carta della polemica sul soffocamento del libero pensiero: ci censurate perché siamo rossi. Più che rossi, sono avidi, e probabilmente la promessa di nuovi quattrini da parte delle istituzioni ne scolorirebbe molti, ma sono tempi in cui il denaro pubblico serve di più ad altro. Comunque il lamento è servito a far abboccare la sinistra, che ci si è avventata per attaccare il governo; ma se la situazione diventa scontro partigiano anziché tentativo di trovare insieme una soluzione, la vicenda si complica anziché semplificarsi.

Quanto a Pupi, lui non è certo un compagno, è un narratore della vita velato di un malinconico liberismo. Più che conservatore, è nostalgico di un mondo che però in fondo non gli è mai piaciuto, visto che con classe ne ha raccontato tutte le bassezze umane. Per quanto riguarda i soldi al cinema però, il maestro presenta un’anatomia particolare: cuore al centro, un po’ spostato a destra, portafogli piantato nel campo della sinistra. È arrivato all’arte non presto, intorno ai quaranta. Prima aveva l’estro ibernato, vendeva surgelati. «Avessi continuato, oggi sarei milionario», si lamenta, «invece vivo in affitto da cinquant’anni perché non mi sono mai potuto permettere di comprare una casa». Avati è maestro di generi, li ha sperimentati quasi tutti. Ultimamente si dedica all’horror, ma quest’affermazione è meglio catalogabile come grottesca: chi non sa che i rappresentanti del commercio sono più ricchi dei cinematografari famosi?

Cinema, la sinistra frigna? Ma le sale sono gremite grazie al ministero

C’è un mondo del cinema che attacca il governo perché vuole tagliare i finanziamenti a pioggia a ope...

RISTRETTEZZE
Del resto, i registi sono avvezzi a raccontarla come vogliono loro, senza venire a troppi patti con la realtà. Pupi ha voluto farci sapere delle proprie ristrettezze, ci auguriamo un tantino romanzate, per rappresentarci attraverso di esse la crisi del cinema italiano: «Sta morendo», diagnostica, «il governo non può mollarlo nell’errata convinzione che sia una cosa fatta solo da gente di sinistra e destinata a un pubblico di parte». Spiace vedere un vecchio e libero leone della macchina da presa cadere nel trappolone ideologico fino al punto di umiliarsi a raccontare i fatti propri dipingendosi come una sorta di nullatenente. La realtà è ben diversa da come la spiega il maestro bolognese. Le norme applicate dal sottosegretario alla Cultura, con delega al cinema, Lucia Borgonzoni, non affamano il settore. Semplicemente, pretende che chi vuol fare un film ci metta almeno il 40% dell’investimento. Serve a non far lievitare i costi, che avevano trasformato il tax credit, gli sconti fiscali al settore, in una sorta di superbonus dem anziché grillino- della pellicola, per cui più spendi, più guadagni, tanto poi paga Pantalone. Serve anche a fare pulizia del sottobosco di malfattori che si fa finanziare una produzione e, presi i soldi, neppure la avvia. Sono casi frequenti, non episodici.

Se si curiosa nel personale poi, non sfugge che anche Avati rientra nella ricca casistica di quegli artisti a cui i soldi pubblici piovuti dal cielo hanno fertilizzato e moltiplicato l’estro. L’autore è sempre stato prolifico, ma ora è diventato decisamente bulimico. In tre anni, dal 2021 al 2024, ha prodotto ben sei opere: Lei mi parla ancora (2021), Dante (2022), La quattordicesima domenica del tempo ordinario (2023), L’orto americano, Nato il 6 ottobre e Le stanze di Verdi (2024).
Troppa grazia, e ancora più quattrini, visto che lo sforzo creativo di Pupi è costato alle casse pubbliche quasi 8,2 milioni di euro. Considerato che i tre figli di Pupi sono ormai fuori casa da un pezzo, possibile che da tale messe non ne sia venuto fuori il sufficiente per pagarsi un trilocale nella fascia semicentrale di Bologna? Senza permettersi di giudicare la qualità dei lavori poi, occorre sottolineare che non tutti si scolpiranno nella coscienza collettiva del Paese e neppure troveranno spazio tra le pietre miliari del nostro cinema.

DECLINO
Per la stragrande maggioranza del pubblico, Avati resterà quello che si è reinventato Diego Abatantuono negli anni Ottanta, con Novantesimo Minuto e Regalo di Natale, oppure quello delicato di Una gita scolastica o, più disilluso, di Quando arrivano le ragazze?, vagamente autobiografico nel racconto di un trombettista (Pupi suonava il clarinetto) fallito superato dall’amico che gli chiude l’orizzonte e gli seduce la sorella ma a cui pure non riesce a non voler bene. Tanta roba, indiscutibile, ma sono decenni che il maestro ne incassa le royalty. Ultimamente, quanto a riscontri di pubblico e critica, le cose gli vanno meno bene, anche se per i tipici paradossi italici lo Stato lo paga di più. L’orto americano, per esempio, è costato tre milioni e mezzo di euro, ma di due se ne sono fatto carico le casse pubbliche. Risultato al botteghino: 266mila euro. Benché sia americano, l’appezzamento cinematografico è stato finanziato anche dalla Regione Emilia Romagna. E non è finita. L’insaziabile Pupi sta per iniziare un nuovo lavoro per la Rai dal titolo Nel tepore del ballo. Tra un giro di pista e l’altro, si spenderanno 3,5 milioni di euro. E che problema c’è? Rai Cinema ha già previsto un milione di euro di investimento, e non è neppure ancora iniziato l’iter per chiedere finanziamenti al Ministero della Cultura.

Abbiamo visto che con l’età Avati non ha raggiunto la pace dei sensi. Il suo cuore trabocca ancora di desideri. Forse oggi non aspetta più le ragazze, come quando era giovane - confessò lui in un’intervista di essersi dedicato al cinema per cuccare, più che spinto dal sacro fuoco -. Azzardiamo che le abbia sostituite con il denaro pubblico e ipotizziamo che abbia avuto maggior fortuna. Chi di certo attende ancora denaro da lui è Cinecittà: core voce che la DueA, la casa di produzione sua e del fratello, abbia da qualche tempo un debito di 400mila euro con i mitici studi cinematografici che attende il saldo. «Non sono più i tempi d’oro del cinema», pare giustificarsi Pupi in un’altra intervista di questi suoi giorni prolifici di esternazioni, «mi ricordo quando mio fratello con la carta platino prenotava viaggi in Australia e cene nei migliori ristoranti di Sydney senza preoccuparsi di quanto costassero...». Bei tempi, ma perché il regista pretende che ora lo Stato paghi quello che lui non si può più permettere? E ancora, non è che tra un viaggio intercontinentale e una cena a cinque stelle gli spiccioli per un trilocale a Bologna si sarebbero potuti trovare?