Elisa Amoruso: "Sono emigrata per Netflix"

La regista italiana firma 3 episodi della serie del momento Dept. Q: "Diversi mesi in Scozia, ringrazio mio marito"
di Alessandra Menzanidomenica 6 luglio 2025
Elisa Amoruso: "Sono emigrata per Netflix"
4' di lettura

Guardando i titoli di testa della serie del momento su Netflix, Dept Q, sui casi irrisolti a Edimburgo, si legge: «Diretto da Elisa Amoruso». Già: lei è una regista italiana, romana, classe 1981, già premiata a Berlino. Il nome non è tra quelli noti al grande pubblico, allora la chiamiamo con una domanda da fan della serie e giornalista: «Ma come ha fatto a dirigere la serie di Scott Frank?».

Prima di arrivare a quel punto, ci racconti di Edimburgo, della serie, e del protagonista, Matthew Goode?
«Le riprese sono durate tanto, sono andata con la mia famiglia a Edimburgo, marito e figlia di dieci anni, da gennaio a maggio dell’anno scorso. La cosa che mi ha sorpreso di più del set scozzese era il silenzio.Sui set italiani non esiste, ero sconvolta, sono abituata al caos. Là invece suonava un campanello, come a scuola, appena scattava il motore. E tutti erano pronti».

Matthew Goode, il protagonista, era meno antipatico di Carl Morke, il personaggio che interpretava: detective cinico e sgarbato?
«Lui è bravissimo in questo tipo di personaggio burbero, gli sta bene. Arrivava estremamente concentrato all’inizio, aveva dialoghi lunghissimi, non sbagliava nulla. Il clima generale era molto scherzoso».

Come è arrivata a dirigere una serie così importante?
«Ho capito che avevo davanti un’occasione pazzesca quando mi hanno detto che si trattava della nuova serie di Scott Frank, ho visto tutti i suoi lavori sia di sceneggiatore che regista. È considerato uno dei migliori script doctor di Hollywood, da La preda a The Interpreter, è stato nominato due volte agli Oscar. Io, soprattutto, sono impazzita per La regina di scacchi, l’ho studiato bene.
Lui sa aggiungere ironia anche nei momenti scomodi. Ed è un genio della trama».

Come l’ha chiamata?
«Dopo The Good Mothers, un progetto molto importante che ho co-firmato. È la storia di tre donne che hanno denunciato mariti, padri e fratelli affiliati alla ’ndrangheta, di queste Lea Garofalo non è sopravvissuta. Questa serie è stata prodotta da Disney Italia e Disney Uk ed è firmata da Julian Jarrold e dame. Quando alla Berlinale la serie ha vinto l’Orso d’oro per la sua categoria siamo saliti sul palco entrambi. La notorietà del premio ci ha dato visibilità, i premi servono a questo, mi ha portato una notorietà stranissima in Uk: mi hanno contattato diverse agenzie per rappresentarmi e ne ho scelta una, quella di Gabriel Blair. Un paio di mesi dopo lui mi parla della nuova serie di Scott Frank. Sia lui che il produttore esecutivo avevano visto The Good Mothers, erano commossi. Ed ecco come è andata».

Come ha fatto a trasferire tutta la famiglia in Scozia così tanti mesi?
«Ho un uomo che supporta tantissimo la mia carriera, mi stima come essere umano e anche come regista. Fa il giornalista sportivo in Rai e ha chiesto due mesi di congedo parentale: tutti l’hanno guardato come un alieno. Dunque, per due mesi è venuto lui, poi si è alternato con i miei genitori. Mia figlia aveva otto anni, si è inserita in una classe di bambini inglesi, anzi scozzesi. Alla fine era abituata. Quando una donna fa un lavoro così difficile la famiglia ti deve supportare se no non ce la fai, noi donna siamo di fronte a scelte difficili».

Avrà un inglese ottimo.
«Lo è diventato. Non sono madrelingua, non ho mai frequentato scuole bilingue, ma ho sempre pensato che l’inglese fosse importante. Sono andata tre mesi in un college inglese a 15 anni, ho preso da sola il TOEFL, ho sempre saputo che questa lingua mi sarebbe seguita. Le registe donna sono una “specie protetta”, solo il 17 per cento, se non avessi saputo l’inglese non avrei fatto questo lavoro fuori dall’Italia».

All’estero ci sono più occasioni?
«In Uk e Francia sicuramente il gender gap è meno evidente. Quando ho fatto il Centro Sperimentale nel 2005 le ragazze non c’erano al corso di regia. Io ho studiato al corso di sceneggiatura, capivo che la grande attenzione fosse per la storia, poi sono passata alla regia. Avevo studiato Lettere indirizzo spettacolo, poi ho fatto un corso di cinema, mi sono laureata in teatro. Studiando il Neorealismo italiano mi si è spalancato lo sguardo sulla potenza del cinema e l’incredibile portata del mezzo».

Miti?
«Kieslowski, Bergman, Truffaut, Jane Campion. Dopo il Cento Sperimentale ho lavorato con Claudio Noce, ho scritto i primi corti, presentati a Venezia. Ho scritto Cloro con Lamberto Sanfelice, che è andato alla Berlinale e al Sundance».

E la prima regia?
«Ho conosciuto un personaggio, Pino Beatrice, trans, meccanico, quando ho conosciuto la sua storia ho pensato subito di raccontarla: è nato il documentario Fuoristrada, che ha vinto il Festival di Roma e poi premi in tutto mondo. Mi ha aperto la strada».

E ora?
«Ho appena finito di montare Amata, per 01 distribuzione. Racconta un tema complesso, delicato, il rapporto di una donna con il fatto di diventare madre: nel cast ci sono Tecla Insolia e Miriam Leone. Non sappiamo ancora quando uscirà: al cinema sicuro, magari anche nelle piattaforme».

È vero che ha un nuovo progetto con Netflix?
«Potrebbe. È top secret. Una storia stavolta italiana».

Nel 2019 ha diretto anche il documentario sul successo di Chiara Ferragni, Unposted. Si può passare dalla leggerezza all’impegno?
«In Italia e in Europa esiste una divisione più a compartimenti stagni. Io ho sempre spaziato molto da una cosa ad un’altra, se la storia è interessante vale la pena raccontarla, non mi preoccupo».

Qualcuno dice che le sale moriranno, cosa pensa?
«Il cinema è un’ esperienza collettiva che non morirà mai».

Cosa pensa dello scontro tra cineasti e governo?
«Negli ultimi due anni sono stata nel Consiglio Direttivo dei 100 autori, penso che mantenere un dialogo con il governo sia fondamentale. La cultura non può essere messa in ginocchio».