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Maurizio Micheli: "Saltimbanco si nasce e si muore"

di Francesco Mattanamartedì 9 dicembre 2025
Maurizio Micheli: "Saltimbanco si nasce e si muore"

5' di lettura

Nella vita di Maurizio Micheli c’è stato un bivio molto importante, di cui l’esperta di bivi Monica Setta non ha rendicontato ancora. È il bivio che visse pressoché ventenne allorquando, diplomatosi da poco al Piccolo di Milano, in via Rovello gli assegnavano piccole parti nelle quali avrebbe dovuto mostrarsi serissimo, solo che lui in più occasioni senza volerlo fece ridere gli spettatori. A quel punto il bivio era: perseverare nel sogno di sfondare come interprete drammatico, oppure prestare ascolto alle voci di dentro che lo esortavano a coltivare il registro più leggero? Ha scelto la seconda opzione, divenendo uno dei più valevoli interpreti brillanti della storia dello spettacolo italiano. Teatro, cinema, tv, financo letteratura: lo slogan “di tutto di più” che la Rai (opinabilmente) utilizzava a suo tempo, nel caso di Micheli si attaglia come un vestito di sartoria. Ha fatto sganasciare dal ridere nei film cui prese parte (Il commissario Lo Gatto, Rimini Rimini, Sono un fenomeno paranormale) come nei programmi televisivi (A tutto gag, W le donne, Fantastico con Celentano), mostrando destrezza pure nella scrittura (i libri Sciambagne!
e Garibaldi amore mio).

Il teatro è il luogo nel quale si è espresso compiutamente e continuativamente. Mi voleva Strehler è il suo cavallo che ha trottato di più (1.200 repliche dal ’78), ma è lunga la lista dei tipi umani perdenti, riscattantisi con la vittoria dell’applauso del pubblico, che ha impersonato nei decenni (in Né bello né dannato, Nudo senza meta, Il contrabbasso, Uomo solo in fila e millanta altri titoli). Galeotto fu Buonanotte Bettina, il classico di Garinei e Giovannini, nel saldare con Benedicta Boccoli un legame artistico evolutosi di lì a poco in legame sentimentale. 28 annidi fidanzamento confluiti, pochi mesi fa, alle nozze che hanno conferito un’ufficialità giuridica alla unione. A chi, dimentico dell’undicesimo comandamento, disapprova che loro due abbiano sempre voluto vivere la vita di coppia in case separate, va fatto presente che Micheli e Boccoli sono la prova vivente che un amore, volendo, può mantenersi bello che integro pure se lui, prima di coricarsi, non dice a lei “Buonanotte Benedectina”.

Micheli, è da parecchio tempo che lei è fermo teatralmente parlando.
«Se la cosa riguardasse solo me, sarebbe molto meno grave. Il problema serio è che moltissime compagnie private stanno faticando, assai più che in passato, a venire scritturate.
L’andazzo generale è di privilegiare l’usato sicuro proponendo in cartellone testi già noti, scritturando soprattutto quei volti che appaiono costantemente in televisione».

Una china quantomeno discutibile...
«Il fatto poi che chiunque possa acquistare una telecamerina e diventare famoso postando video di qualità opinabile è una novità francamente non bella, che poco ha a che spartire con gli sforzi che alla mia generazione venivano richiesti per sfondare. Al Piccolo guadagnavo due lire, e la gavetta prevedeva situazioni un po’ mortificanti, come quella volta che, vestendo una pesante armatura da soldato del ‘700, persi l’equilibrio e scivolai in platea, suscitando risa involontarie in quell’ambiente contegnoso».

È incredibile come i suoi spettacoli, molti decenni fa, avessero la dote della preveggenza...
«Le mie antenne, e quelle dei miei superbi compagni di viaggio Umberto Simonetta e Enrico Vaime, avvertirono che l’ossessione della visibilità poteva diventare un grave problema sociale. Lo spettacolo del ‘79 C’era un sacco di gente, soprattutto giovani ironizzava, amaramente, sui giovani come carne da macello da sacrificare alla religione dello show business. In America lo fanno da anni, nell’88, raccontava di addetti ai lavori disposti a tutto per mezzo punto di share. Io facevo illo tempore un programma in Fininvest ispirato a Cluedo, si intitolava Il delitto è servito. Quel titolo, se ci pensi, vale pure come manifesto della tv di oggi: ammazzamenti a ogni ora del dì e della notte, su tutte le reti».

L’impressione è che quei memorabili perdenti, da lei incarnati a teatro, siano il frutto di sue disillusioni...
«È inesatto definirmi un disilluso, nel senso che non ho mai vissuto l’illusione delle ideologie. Stavo a Milano nel ’68, ma non ero un sessantottino. Con Michele Mirabella, che era il mio regista al Centro Universitario Teatrale di Bari, si rideva di certi eccessi dei coetanei che sfociavano nel fanatismo».

Ha vissuto a Bari dagli 11 ai 21 anni, ma prima c’è stata l’infanzia a Livorno. Come mai la “pugliesità” le è rimasta più nella pelle?
«Perché a Bari ho vissuto gli anni in cui un individuo costruisce una sua propria identità. Il dialetto pugliese, che contraddistingue molte mie maschere (il disc-jockey di Radio Bitonto Libera, l’esagitato fan di Angela dei Ricchi e Poveri) me lo sono sudato da ragazzino, dovevo interiorizzarlo per essere accettato dai coetanei».

Strehler ha mai visto Mi voleva Strehler?
«Non l’ha mai visto e verosimilmente non gli sarebbe piaciuto, visto che lui stesso asseriva di essere sprovvisto di senso dell’umorismo. Mandava però i suoi assistenti in avanscoperta, a vedere “questi che mi prendono in giro”. Comunque, una volta mi volle davvero. Nell’80 voleva coinvolgermi in un testo drammaticissimo, ma declinai perché avevo un contratto televisivo da rispettare. Nina Vinchi, la signora del Piccolo, mi allertò: “Micheli, pensi alla carriera”. Le risposi, col dovuto garbo, che alla mia carriera dovevo pensarci io, non lei».

Ha lavorato anche nelle reti di Berlusconi.
«Presi parte, con successo, al varietà W le donne. Una volta, nei giardini di Arcore, chiesi al Cavaliere se fosse contento del mio lavoro. “Guardi”, rispose, “lei piace a mia madre, quindi a me sta bene così”».

E con Celentano in Rai? Com’è che il Messia di Galbiate la scelse tra gli apostoli...
«Mi chiamò alle due di notte per dirmi di avvicinarmi subito nella sua villa a Galbiate, perché voleva coinvolgermi a Fantastico. Il fatto che io da Roma, nelle ore piccole, dovessi correre verso la Brianza, per lui era la cosa più naturale del mondo. Quel Fantastico era un programma fuori da ogni schema.
Lì proposi Rocco Tarocco, l’avvocato che difendeva i delinquenti più incalliti con argomentazioni paradossali. In Italia, dove spesso latita il sense of humour, in molti credettero che fossi davvero dalla parte dei malviventi».

Buonanotte Bettina, Un paio d’ali, Un mandarino per Teo. C’è qualche altro Garinei e Giovannini che vorrebbe fare?
«Rifarei Giove in doppiopetto, che a suo tempo fu di Dapporto, ma andrebbe riattualizzato, perché l’originale era pieno di riferimenti all’attualità degli anni Cinquanta».

Con Paolo Villaggio, col quale condivise lo spassoso Roba da ricchi?
«So che molti colleghi lamentano le indiscipline di Paolo, ma io ho conosciuto un compagno di lavoro puntualissimo, preciso nelle battute. Villaggio per noi, da ragazzi, era stata un’apparizione straordinaria.
Interrompevamo, con Mirabella, le prove per godercelo in Quelli della domenica».

Da Benedetta & Company, miniserie cui lei partecipò, a...Benedicta. Albertazzi definì sua moglie l’”artistissima”. Sottoscriviamo?
«Sono contento, quanto Benedicta, di questa definizione. “Artistissima” era una affettuosa iperbole, e come tale andava interpretata. Quel che è vero è che Benedicta ha costruito, negli anni, una sua importante fisionomia attoriale».

Un’ultima domanda, che prende a prestito il titolo di un suo spettacolo con Jannacci: Micheli, saltimbanchi si muore?
«Me lo auguro, è bello nascere e morire saltimbanchi. Nel frattempo vorrei sentirmi, se passeranno i chiari di luna del teatro, un saltimbanco un po’ più tutelato».