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Grande Fratello Vip, "perché è una astuta messinscena": gode solo Mediaset, chi punta il dito

Massimo Arcangeli
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Grande Fratello Vip non è un reality show, né tantomeno un gioco: è il prodotto di una messinscena i cui cinici registi, nel maneggiare l'arte della finzione spettacolare per trarne uno specchio televisivo della postverità, mirano a delegittimare l'estraneo di turno - al "gioco", o perfino al mezzo - per aizzargli contro i telespettatori fino a stanarlo. Siamo di fronte a una vera e propria forma di esasperazione mediatica, con le parole che vivono di una vita autonoma rispetto al mondo reale. Un atto commesso anche ai danni di chi con la trasmissione, giocata in stile Black Mirror, non ha (né vuole avere) nulla da spartire. 

 

 

Walter Zenga, Laura Pausini, Francesco Baccini. Chiunque però, anche un perfetto sconosciuto, può essere dato in pasto a un branco di famelici teleutenti che si avventano sulla sua reputazione distrutta e compromessa da presunti vip, ognuno calato nel suo bravo ruolo: Maria Teresa Ruta la Vittima, Tommaso Zorzi il Calcolatore, Andrea Zenga lo Psicofragile, Cristiano Malgioglio lo Sciantoso, Patrizia De Blanck la Volgarona Snob, Paolo Brosio il Fulminato sulla via di Lourdes... Rinchiusi in una specie di dorato postribolo al tempo del Covid, i vippini possono sputare o rimettere qualunque cosa. Salvo essere messi scontatamente in riga dagli occhiuti responsabili del programma, anche loro impegnati a recitare la pantomima delle reprimende o delle espulsioni annunciate per le bestemmie (Stefano Bettarini e Denis Dosio) e per le altre parole, espressioni o frasi infelici pronunciate dai concorrenti: «Perché vedi qualche negro?» (Alda D'Eusanio, la Zizzaniatrice); «Negro è una razza» (Fausto Leali , l'Angelo Negro); «Quanto mi pagate se tea-baggo la Ruta? Io andrei su tea bag, però bisogna farlo in due o tre. Basta appoggiargli sulla fronte» (Filippo Nardi, il Sessista).

 

 

Il tutto con la complicità di Alfonso Signorini il Pettegolezzoliere, spalleggiato da Pupo il Dissacratore e da Antonella Elia la Moralizzatrice. All'apparenza impossibile, dati gli ascolti, mettere una bella pietra tombale su una trasmissione sempre più strabordante negli spazi e nei tempi. A cibarsi dei resti della Grande Ammucchiata è soprattutto Barbara D'Urso; è lei a prendere il testimone, nel suo tritacarne mediatico, con le ospitate ai parenti e agli amici dei supposti famosi, volte a scatenare gli appetiti in un caravanserraglio simile a un pollaio da combattimento: vince chi urla, impreca o insulta di più. Anche il pubblico mostra di starci, o si lascia addomesticare.

Lo spettacolo, se si è protratto così a lungo, è anche perché fa leva sul bisogno di tanti, in assenza di cinema, teatri e altri luoghi, di essere in qualche modo intrattenuti. Una pandemia nella pandemia, più subdola e insidiosa di qualunque virus, perché molti fra gli intrattenuti per caso (e per necessità), da iniziali asintomatici, potrebbero presto sviluppare gli agenti patogeni replicatori di ulteriori, inarrestabili derive. Nella didascalica tv delle origini i telespettatori stavano alla finestra per osservare il mondo, imparando a dare un nome alle cose. Con la fine del monopolio e il boom dell'emittenza privata s' impone il modello partecipativo, del dialogo con la realtà esterna, rappresentato da un pianerottolo, una piazza o una piazzetta (come nel talk show I fatti vostri); i telespettatori escono dalle loro abitazioni, la televisione stimola il piacere di stare insieme. Arriva quindi l'arena: il pubblico in studio incita, fischia, provoca, tifa, aggredisce, e gli ospiti fanno a gara nel togliersi la parola, nel parlarsi sopra, nel cercare la rissa. Siamo ora alla post-arena. La tv spia chi sta seduto sugli spalti, e assiste allo spettacolo (ma anche chi non lo guarda), per puntargli il dito contro. Archiviato il nostro sguardo su di lei, si è messa a guardare noi.

 

 

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