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Ghali, beatificazione a Domenica In: tutti in piedi, pollicione alzato e "ti amo!"

Andrea Tempestini
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«Stop al genocidio»: la formula magica che innesca un indigeribile circo politico e mediatico. Le tre parole sono sbrodolate da Ghali sul palco dell’Ariston, ultimo atto a Sanremo. Dopo le digressioni in arabo, dopo la reinterpretazione de L’italiano per ribadirci la sua italianità mai messa in discussione e dopo aver cantato per tutta settimana Casa mia (superflua dichiarazione d’intenti) ecco che Ghali Amdouni, origini tunisine, accusa Israele di «genocidio». La differenza qualitativa rispetto ai «cessate il fuoco» di Dargen è dirompente: dai generici buonismi no-war si passa a bollare gli ebrei come sterminatori.

Nel circo politico ci sguazzano i vari Fratoianni e Conte, mentre Alon Bar, ambasciatore israeliano in Italia, risponde con sdegno. Qui chiudiamo il caso politico, ma era necessario un poco di contesto. Il punto è che il “peggio”, forse, ci arriva da una singola diapositiva tv, dal circo mediatico che accoglie con complice frivolezza la parola «genocidio». Siamo a Domenica In, Mara Venier ondeggia sul palco dell’Ariston. Sfilano tutti i cantanti e tocca a Ghali. «Bravo, elegante, intenso... io ti amo!», si scioglie Mara. «Volevo dirti una cosa intima... sei molto sexy», aggiunge con sguardo languido Enrica Bonaccorti. Anche queste sono note di colore, contesto, ma il contesto è importante se è quello in cui viene ricevuto chi parla con approccio acchiappa-like di cose serie, di guerra. Di «genocidio», addirittura. Poi Ghali canta.

Ciondola sornione di nero vestito. Qualcuno gli fa notare che mister Bar non ha gradito. «Non so cosa rispondere, mi dispiace». Ghali ci spiega che «sono uno di quelli nati grazie a internet e sin dalle mie prime canzoni parlo di quello che sta succedendo. Non è dal 7 ottobre», la data del pogrom di Hamas, «questa cosa va avanti già da un po’ e la gente ha più paura». La «cosa» è il «genocidio», ovviamente. E ancora, dall’alto di un lessico che flirta con l’infantilismo, una surreale lezione sul lessico stesso dell’ambasciatore: «Il fatto che lui dica così non va bene perché continua questa politica del terrore. La gente ha sempre più paura di dire stop alla guerra e stop al genocidio». Populismo un tanto al chilo.

 

Queste le parole di Amdouni che danno il là alla sconcertante diapositiva tv. «Le persone sentono che vanno a perdere qualcosa se dicono evviva la pace!», rincara galvanizzato. «Bravo!», si alza il grido dall’angolo dei giornalisti. Poi gli applausi, i decibel in crescendo. Venier: «Siamo tutti d’accordo, vogliamo la pace!». Ghali: «Tra quei bimbi che muoiono chissà quante star, geni, dottori». Gli applausi si fanno assordanti. Li interrompe Luca Dondoni, inviato della Stampa, quello che poco prima aveva ricordato a Ghali l’ira dell’ambasciatore. Ma li interrompe per esaltarlo: «Basta ascoltarlo il suo brano, contiene tutto questo. E lo racconta in modo meraviglioso». «Ci siamo capiti», ammicca lui. «Ci siamo capiti, Ghali!», urla Dondoni con pollicione proteso e sorriso smagliante. «Ghali! Ghali!», scandisce in coro l’Ariston. Un tripudio, la cui ovvia coronazione è quel «vieni qua» della Venier: lo prende per mano, standing ovation. «Spero di non deludervi mai», chiude Ghali in versione messianica.

 

 

In breve: i dubbi sul genocidio messo in atto da Israele stanno a zero. Tutti in piedi e cori da stadio per chi parla di carneficina a senso unico. Questo su Rai 1, laddove il massacro del 7 ottobre viene citato solo per dire che la carneficina «va avanti già da un po’». E insomma il 7 ottobre forse dobbiamo anche un po’ giustificarlo. Una sintesi, dolorosa, del pensiero dominante. Per completezza segnaliamo anche un guizzo a sorpresa della stessa Venier. Entra Dargen D’Amico e dal «cessate il fuoco» passa agli «immigrati che ci pagano le pensioni». «Non si parla mai del fatto che la bilancia economica dell’immigrazione è in positivo, quello che i migranti mettono nelle nostre casse per pagare le nostre pensioni è più di quanto spendiamo per accoglierli». Troppo, per la Venier: «Va bene, ma qui è una festa. Ci vuole troppo tempo. Noi stiamo parlando di musica». «Colpa mia, scusate». «Non è colpa tua, ma è difficile dire in tre parole tutto questo», chiude la Venier. «Sono tematiche importanti, ragazzi». Proprio come il 7 ottobre e la parola genocidio.

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