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Milan, la coincidenza inquietante: in 10 anni esatti dal Pallone d'oro di Kakà alla tragicommedia di Benevento

Andrea Tempestini
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C'è un giusto un giorno di differenza, 2 dicembre 2007 e 3 dicembre 2017, 3.654 giorni lunghi abbastanza per misurare la resistibile discesa di una società di calcio, l'Associazione Calcio Milan. Due domeniche come punti di una retta: partita dalla consegna del Pallone d'Oro a Kakà - l'ultimo, tra l'altro, prima del duopolio Messi-Cristiano Ronaldo - e chiusa con la comica finale di Benevento, la raggiunta e definitiva incapacità di essere il Milan, di fare il Milan anche contro gli ex padroni della quota zero, di oro non ce n'è più, i palloni sono fatti di piombo, di veleno, altro che oro. Immediatamente dopo quella gioia per l'incoronazione del Bambino d'Oro brasiliano, il Diavolo si levò in volo per il Giappone, per giocare e soprattutto vincere il titolo Mondiale per club, anzi, per clœub, come diceva patron Silvio Berlusconi: grazie al trionfo contro il Boca Juniors (domenica 16 dicembre, compleanno della società, altra coincidenza del Fato pallonaro) , l'Associazione cara ai cuori rossoneri divenne ufficialmente il «club più titolato al mondo», la squadra con la bacheca più ricca di titoli internazionali. Gran finale dell'ennesimo ciclo vincente, scrissero e pensarono in tanti. Ma di un ciclo, appunto: non di una storia. Da lì in poi, un unico guizzo tricolore nel 2011, firmato in gran parte da Zlatan Ibrahimovic: ma al di là dei conti della serva sul palmarès, la timeline di questi dieci anni ha come costante l'abdicazione costante e persino ostinata da tutte le cariche detenute: non solo addio alle vittorie, dunque, ma soprattutto ai grandi giocatori, e con loro al bel giuoco (ehm..), e ancora alla capacità gestionale e tecnica, ai progetti a qualsiasi termine, alle idee, alla linearità nella scelta e nella fiducia agli allenatori, alla chiarezza. A tutto quanto fa una grande squadra, insomma: e il tutto, tra l'altro, a cavallo tra due diverse proprietà, due diverse dirigenze. La zuccata vincente di un portiere, al quinto di recupero, e il primo punto in Serie A di un undici battuto quando non massacrato da tutte le altre prima di ieri, sono veramente il polo opposto, anche nei simboli, al doppio trionfo di Kakà e dei campioni del mondo. Lo sconforto che degrada in depressione calcistica perché gonfiato a dismisura dall'Inter che gioca stupendamente, che fa goleada a San Siro mezz'ora dopo la tragicommedia rossonera, che fa abbattere il muro del suono ai tifosi che a San Siro si sgolano nel «chi non salta rossonero è», che torna dopo due anni al primo posto in classifica e da quella posizione sabato va a sfidare la Juventus, che da sei anni domina e a Napoli, ancora, ha dimostrato che per lei non è ancora giunto lo stesso momento vissuto dal Diavolo dieci anni fa a Tokyo. Il Napoli che comunque è sempre in corsa, e occhio alla Roma, che gioca così bene pure lei. Ce n'è solo uno, di tifoso, che guarda le partite con l'occhio pallato, o bagnato dal magone. Coraggio milanista, non sappiamo se il Corvo era un cuore rossonero, ma in ogni caso non può piovere per sempre. di Andrea Saronni

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