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Coronavirus, Luciano Moggi e la confusione della serie A: "Al calcio manca uno come me"

Luciano Moggi
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Si dovrebbe parlare dell'assemblea virtuale della serie A solo per mettere in evidenza l'ovvio di queste riunioni: si cerca un accordo comune per le decurtazioni agli stipendi quando si sa perfettamente che ognuno, a casa sua, fa quello che vuole, ovviamente con il parere favorevole della squadra. L'unica cosa nuova è il diktat dell'Uefa che intima a tutte le nazioni di portare a termine i campionati. Risponde Cellino in conference call: «Anche se si ricomincia io non torno in campo con il mio Brescia». Non male come risposta, anche perché sa perfettamente che, tornando in campo, rischierebbe la retrocessione.

D'altra parte ci può anche essere chi segue la linea di condotta adottata dal Belgio che decide autonomamente di terminare il suo campionato anzitempo. È anarchia: evidentemente ognuno può fare e dire ciò che vuole. E Ceferin (il presidente dell'Uefa che ieri ha spiegato: «È necessario che il 3 agosto sia la Champions che l'E-League siano terminati»), di fronte a tanta evidenza non ha potuto che rispondere con un comunicato dove precisa che rischia le coppe chi tenta di imitare il Belgio. Come se la ripresa dei tornei dipendesse dalla volontà delle singole nazioni e non dal virus. Ceferin non fa invece chiarezza sul perché abbia fatto giocare Lione-Juve e Atalanta-Valencia a porte aperte (due gare ora nell'occhio del ciclone, quasi fossero state loro la causa della propagazione del virus in Italia, Spagna e Francia). E neppure dà spiegazioni sul perché, il 12 marzo, abbia fatto giocare quattro partite a porte chiuse in E-League mentre a Glasgow, nella stessa serata, quarantamila spettatori assistevano a Rangers-Bayer Leverkusen.

TROPPA CONFUSIONE
Non vi sembra, amici lettori, che ci sia troppa confusione e pressappochismo nella testa di chi comanda? O meglio che non ci sia attualmente nessuno che sappia tenere saldamente in mano le redini del comando? Il problema è che a questo calcio manca uno che sappia prendere delle decisioni vere. Non è facile, certo, e lo so bene. Però io, da dirigente, mi sono sempre assunto le responsabilità delle scelte, soprattutto nei momenti difficili: ora, tra chi decide le sorti del pallone, ci vorrebbe proprio qualcuno in grado di fare allo stesso modo.

Il destino è purtroppo legato al Coronavirus, che sta ossessionando la gente che si rintana in casa, pensa troppo e solo alle cose negative. È il momento degli psicologi che suggeriscono di pensare solo positivo. Forse proprio per questo motivo le tv e i social propinano, per tutta la giornata, programmi per alleggerire l'ansia. E siccome lo sport in genere è stato quello che spesso ha saputo modificare gli atteggiamenti della gente, la fanno da padroni i filmati inneggianti le gesta di nostri campioni del passato, come Totti e del Piero per il calcio, come le imprese di Bartali e Coppi per il ciclismo (ricordandoci anche di come una vittoria di Bartali nel Tour de France riuscì ad evitare all'Italia la guerra civile a seguito dell'attentato a Togliatti). Ci sono continue sollecitazioni, per i tifosi di calcio, a ripercorrere le imprese della propria squadra del cuore.

Nell'editoriale del direttore della Gazzetta di qualche giorno fa si leggeva che «attraverso lo sport ci scopriremo "uguali e diversi", ma avremo imparato che l'avversario non è un nemico»: articolo effettivamente bello nella sua stesura e ricco di tanta umanità e fratellanza, sicuramente adeguato a questi momenti. Condivisibile anche il contenuto sui tifosi che non debbano considerarsi nemici: ognuno può infatti gioire per i propri colori e tutti per la Nazionale che vinse il Mondiale nel 2006. Sperando che il campionato possa ripartire e concludersi, sempre virus permettendo. Anche perché ciò significherebbe il rallentamento della pandemia e farebbe rifiorire negli italiani la speranza nel futuro, oltre a salvare molte squadre di calcio dal fallimento.

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