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Alessandro Calori,"Per esperienza personale dico: sempre meglio tornare in campo"

Francesco Perugini
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«Ripartire è complicato, serve qualcuno che si prenda la responsabilità». Vent'anni fa se ne incaricò Pierluigi Collina, l' arbitro che rimandò in campo i giocatori di Perugia-Juventus dopo un'ora e un quarto di pausa per il diluvio all' ultimo turno di campionato. E fu Alessandro Calori a decidere quella partita - e quell'incredibile scudetto - con un suo gol il 14 maggio 2000. La Juve davanti, la Lazio a inseguire proprio come oggi, finché il difensore degli umbri ribaltò le gerarchie.

Calori, sull' Italia torna il maltempo come quel pomeriggio di vent'anni fa. Che ricordi ha di quel diluvio?
«È stata una partita unica, assurda, ma decisiva per lo scudetto. Non penso ci sia stata un altro incontro con 75' di intervallo».

Partiamo dalla vigilia. Nei giorni precedenti il patron Luciano Gaucci aveva annunciato ai giornali che vi avrebbe mandato in Cina se non aveste vinto. Eravate sotto pressione?
«Si è molto ricamato su questo. La verità è che la tensione era nata la domenica prima, quando venne annullato un gol regolare a Fabio Cannavaro in Juventus-Parma. Da lì cominciò la pressione mediatica su di noi, ma a noi Gaucci disse: "Facciamo la nostra partita, diamo il massimo e vada come vada". Quando lo sentimmo pronunciare quella frase in tv restammo scioccati».


Eravate una bella squadra, quella che precedette l'era di Serse Cosmi.
«Arrivammo decimi e andammo in Intertoto. C'erano Materazzi, Rapaic, Nakata che andò via a gennaio. Però se uno riguarda l'intera partita, si accorge che la Juve sbagliò 8-9 gol, Pippo Inzaghi almeno quattro o cinque a tu per tu col portiere. In quella Juve c'erano Zidane, Del Piero, Montero, Ferrara, Conte: non c' era confronto. Ho sempre pensato che arrivarono un po' scarichi. Avevano perso anche a Verona alla terzultima. Erano spompati perché erano partiti presto per giocare l'Intertoto».

A guidarvi c'era Carletto Mazzone che lei avrebbe seguito in estate a Brescia. Come gestì quell'intervallo infinito?
«Era un personaggio che sapeva sdrammatizzare ogni situazione. In quella lunga attesa non si faceva vedere molto nello spogliatoio, si era chiuso nel suo stanzino ad aspettare notizie».

Non era capitano, era Olive, ma uno degli uomini di esperienza della squadra. Come percepì la gestione di Collina?
«Lo vedevamo chiamare in federazione, il presidente o il capo degli arbitri non so. Era in imbarazzo: la Juve non voleva giocare, noi nemmeno perché veniva giù tanta acqua. Solo quando tornammo in campo ci accorgemmo che il prato di Perugia, uno dei migliori in Italia in termini di drenaggio, era praticabilissimo.
Per fortuna giocammo: dopo le polemiche di Juve-Parma, immaginate cosa sarebbe potuto succedere? E le polemiche con la Lazio che aveva già vinto all'Olimpico contro la Reggina?».


Rientraste in campo e dopo appena quattro minuti succese l'impensabile: il suo gol.
«Quell'anno avevo fatto cinque gol, uno a Parma proprio a Gigi Buffon nella nebbia. Su un cross di Rapaic, Antonio Conte sbaglia il rinvio. La palla finisce a me che stoppo di petto, Montero mi viene incontro ma non fa in tempo a coprire la porta e la palla va nell'angolino alle spalle di Van der Sar. Ho sempre confessato di essere juventino, il mio mito da bambino era Gaetano Scirea. Diciamo che mi è dispiaciuto un po', poi un professionista fa quello che deve fare».

 


Quello che sostiene lo stesso Conte, oggi allenatore dell'Inter. Se glielo avessero predetto vent' anni fa?
«Il calcio è bello anche per questo, ci sono storie impensabili. Ed è per questo che è tanto popolare tra la gente. Ripenso a quella giornata e dico che fu la prova che Davide può battere Golia, è una cosa che mi sono sempre portato dentro in carriera da giocatore e ora da allenatore: ho portato il Portogruaro in Serie B da allenatore, l'Udinese da capitano per la prima volta nelle coppe».

Ha scritto anche un libro sulla favola di quella squadra terza in campionato. La rivede nell'Atalanta di Gasperini?
«Ne parlavo con un collega che mi ha fatto la stessa osservazione. Non avevamo paura di affrontare le grandi proprio come la Dea, spensierata e divenuta un tutt'uno con l'ambiente. Se quell'Udinese avesse avuto la forza di tenere i migliori, avrebbe potuto togliersi soddisfazioni ancora più grandi».

I friulani sembrano vivacchiare negli ultimi anni. Si è persa l'anima italiana che caratterizzava quel gruppo?
«Costruire una squadra di calcio è come impastare la pasta madre. La crei negli anni, trovi quelle tre-quattro persone che ne diventano le colonne. Io l'Udinese la sentivo una cosa mia, non solo perché ero il capitano. A chi arrivava spiegavo il sogno di arrivare in Europa, dove quella società non era volata nemmeno con Zico e Franco Causio. Puntavano a scovare i giovani, a crescerli e ad aspettarli: l'Atalanta rispecchia quella filosofia».

È lievitata bene nel corso delle stagioni anche la Lazio di Simone Inzaghi. Potrà puntare allo scudetto come quella di Eriksson?
«Inzaghi e Tare hanno scelto pezzo per pezzo: Milinkovic-Savic, Luis Alberto, gente che nessuno conosceva. Hanno creato uno spirito, un'identità di gruppo e un gioco con principi giusti. La Sampdoria dello scudetto era un blocco unito da sei-sette anni. Nel calcio non si inventa niente: il tiki-taka lo faceva già l'Austria degli anni 30 con il ct Meisl. Ci sono tante mode, ma ognuno deve seguire le proprie idee».


Una linea chiara sembra mancare al Milan...
«Sono andato a vedere i rossoneri a Firenze. Da spettatore-tecnico, ho visto Ibra essere la luce della squadra, pur camminando. Se uno a 38 anni è il riferimento, vuol dire che qualcosa non va. Ti può salvare la stagione, ma non di più. Chi ha visto gli Invincibili, la difesa di Sacchi, ha l'istinto di prendere a calci uno come Suso che fa solo tre metri a rientrare».

Sembra che il campionato ripartirà dopo un lungo stop, proprio come quella partita indimenticabile di Perugia. Chi lo vincerà?
«Rimango scettico. Se si ripartirà, saranno tutti pronti a puntare il dito contro chi firmerà la ripartenza. Difficile dire chi sia favorito: il coronavirus ci ha fatto tornare tutti più umani. Il lavoro più difficile per gli allenatori sarà sulla testa: la Juve ha più qualità e un pizzico di vantaggio, ma la Lazio può contrastarla. Sarà un altro campionato: penso all'Atalanta che viene da una stagione straordinaria, ma potrebbe far fatica a ritrovare i suoi ritmi».

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