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Gigi Simoni, il mister derubato dal destino

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Gigi Simoni ha dovuto pagare un prezzo salato agli dei del pallone, a quel destino che pur concedendogli un inequivocabile ed universale apprezzamento come persona e professionista, si è voluto beffardamente vendicare, derubandolo della piena felicità, pennellando sempre una punta di amarezza in quel suo amabile sorriso. Se n'è andato ieri a 81 anni, Simoni, nel giorno del decennale della vittoria della Champions dell'Inter, lui che quasi in ogni piazza dove è stato ha lasciato il segno ma che proprio in nerazzurro ha vissuto il vero innamoramento calcistico, allo stesso l'apice e il fondo (non per colpa sua). 

È con l'Inter che sportivamente Simoni muore una prima volta, il 26 aprile 1998, quando a Torino l'arbitro Ceccarini non fischia rigore sul contatto Ronaldo-Iuliano, scelta che, juventini a parte, è probabilmente una delle meno condivise dai tifosi in assoluto. «La telefonata con la quale la moglie mi ha avvisato mi ha provocato un dolore immenso», confessa Massimo Moratti, «è stato un grande protagonista della nostra storia: ha vinto una coppa Uefa molto importante ma gli è stato impedito di vincere un campionato». Certo, anche lo stesso Moratti al quale Simoni aveva consegnato il primo trofeo della sua presidenza (proprio quella Uefa vinta demolendo 3-0 la Lazio a Parigi il 6 maggio '98), lo aveva ferito: il 30 novembre 1998 Simoni era a Coverciano a ricevere la Panchina d'oro (reduce dal 3-1 al Real in Champions con doppietta di Baggio e dall'1-0 sulla Salernitana), nel frattempo Moratti lo stava esonerando in segreto per prendere Lucescu. «Speriamo che non sia un premio alla memoria», la sua inconsapevole battuta sul palco. Che amarezza. «Moratti, però, ha riconosciuto di avere sbagliato e adesso abbiamo un ottimo rapporto, perché è davvero una persona splendida», ci rideva su. 

 

 

TRAGEDIA E UMILTA'
Gigi se ne va nove mesi dopo essere stato colpito da un ictus, dal quale non si è più ripreso (era ricoverato a Pisa, dove viveva e dove sarà disposta la camera ardente), tuttavia personalmente era già morto una volta in quel maledetto 1999, quando l'amato figlio Adriano era rimasto vittima di un incidente stradale a soli 33 anni, finito con la sua moto contro un'auto. Allenatore vecchia scuola, Gigi nella grande chance della carriera all'Inter (che gli costò l'esonero a stagione in corso dal Napoli perché il segreto dell'accordo già firmato con Moratti trapelò) si è trovato fra le mani il primo vero asso del calcio moderno, quel Ronaldo che ha ridefinito i nuovi parametri dell'attaccante sublimati poi nel quasi omonimo oggi alla Juventus. Intelligenza pratica, evitando barocche costruzioni tattiche per far vedere quanto uno è furbo, Simoni con l'Inter aveva reso in forma plastica il credo di un calcio italiano che partiva dalla difesa (con Beppe Bergomi allora 34enne e fra gli ultimi a giocare da libero puro) e funzionava, perché basato sul buon senso: gestione del materiale umano a disposizione e lucida capacità di osare andavano a braccetto. 

La sua Inter era marcature a uomo, centrocampo muscolare, sagace e di cuore («Simeone in un quaderno aveva già gli appunti sui metodi di lavoro di tutti i suoi allenatori») e attacco che faceva rima con verticale: Moriero tornante, Djorkaeff trequartista, il Fenomeno a puntare la porta e mai ingabbiato in alchimie tattiche. Un identikit mica così lontano da quello di Mourinho, sfiorato da giovane («Eriksson mi voleva al Benfica, dove Josè stava cominciando») eppure poco apprezzato: lo stimava come allenatore ma ha sempre confessato che non poteva stargli simpatico «chi manca di rispetto ai colleghi». Simoni era figlio di un calcio di livello, ha debuttato con la Fiorentina di Bernardini, è stato compagno di Gigi Meroni al Toro: andò lui alla Juve al posto della Farfalla quando saltò l'affare, ma non combinò granché, al contrario tornò con grande soddisfazione in quella provincia dove ha sempre dato il meglio, in campo e in panchina. Come al Brescia, come ad Ancona, come con quella Cremonese, tornata in Serie A nel 1993 proprio con lui al timone, costruita con pochissime lire, Florjiancic unico straniero, ma capace di battere il Milan di Capello e nel 1994 vincere la Coppa Anglo-Italiana a Wembley. 

FILOSOFIA
Sessanta anni passati nel calcio, Simoni ha indossato le maglie del Mantova, del Napoli, del Torino, della Juve, del Brescia e del Genoa. La prima panchina proprio al Grifone, stagione 1974/75: lanciò a 20 anni Bruno Conti, il suo «preferito a livello umano», raccontava alla Gazzetta in occasione dei suoi 80 anni. Tra i pochi protagonisti in quattro derby (Genova, Torino, Roma e Milano), Simoni è l'unico ad avere festeggiato dodici promozioni da allenatore e due da calciatore. Lo si dice di molti "è stato un signore", ma Simoni lo era davvero, lo è stato perfino con Ceccarini al quale esclamò (non urlò) «si vergogni» dandogli del lei dopo il contatto Ronaldo-Iuliano. Ed è stato stato un signore fino alla fine perché, come spiegava a Repubblica quando allenava i ragazzi del Gubbio, sua ultima panchina nel 2012, «la differenza nella vita è solo una questione di emozione e commozione. Dentro di me tra la promozione della Carrarese e la Coppa Uefa vinta con l'Inter non c'è differenza. In entrambe le occasioni mi sono incantato come un bambino e ho sentito le lacrime riempirmi gli occhi. E allora, dove sta la differenza?»

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