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Simone Inzaghi sarà multato per una frase blasfema: perché è una regola senza senso

Domenico Secondi
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Bisogna riportare le persone allo stadio, è ora di dirlo senza più esitazioni. Non tanto per aiutare lo spettacolo, quello non sta mancando, bensì per fare rumore. Già, il rumore del pubblico è una parte essenziale per poterci tornare a godere le partite nascondendo le parole dei protagonisti in campo. Pensateci bene: se martedì sera a San Siro ci fossero stati gli spettatori di un derby normale, anche se di Coppa Italia, di certo non avremmo passato ore a discutere su un «donkey» o un «monkey», ma solo della parabola disegnata da Eriksen.

 

E ci risparmieremmo - o almeno così si spera - il solito tribunale della parola che segue calciatori e allenatori. Stavolta è il turno di Simone Inzaghi, colto dai microfoni in un'espressione blasfema durante Lazio-Sassuolo di domenica. Battere De Zerbi non è facile e, quindi, dal punto di vista calcistico è persino comprensibile l'imprecazione del tecnico biancoceleste. La Procura federale ha concluso le sue indagini e lunedì deciderà la squalifica o il patteggiamento.

 

Destino simile per Gigi Buffon, noto per il suo «gergo toscano» (così l'ha definito la compagna e giornalista Ilaria D'Amico): la bestemmia sfuggita all'arbitro a dicembre contro il Parma è stata oggetto di indagine da parte della Figc fino al deferimento che lo porterà al processo sportivo. Gigi è ancora lì in campo, così come la norma anti bestemmie che dopo dieci anni dimostra tutto il peso degli anni, rivitalizzata da sporadiche folate di moralismo (è tornata in auge con il caso del romanista Cristante dopo un lungo letargo). Così come la pretesa di pretendere dai giocatori un comportamento da educande per essere di "esempio" alla gente. Quello stesso pubblico che allo stadio tanto non ci può andare.

 

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