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Luciano Spalletti, la rivincita: quello che non gli avevano mai riconosciuto

Claudio Savelli
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Prima di oggi, Luciano Spalletti aveva dato al calcio più di quanto non avesse ricevuto in cambio. Il suo contributo al gioco è sempre stato sottovalutato, forse perché siamo italiani e diamo più peso all’apparenza che alla sostanza, e nei modi il mister è stato troppo genuino per un mondo così furbo. La verità è che Spalletti è sempre stato incompreso in quanto incomprensibile. Perché è sempre stato un passo avanti. Fin dagli inizi della sua carriera da allenatore ha proposto qualcosa di diverso, qualcosa di più. Un po’ per una passione smisurata e quasi morbosa alla materia, cosa che lo accomuna a Pep Guardiola, un po’ per indole personale. 

Luciano, per dirla alla Sabatini, è «un dirimpettaio della follia». Spalletti ha iniziato ad allenare alla fine degli anni ’90, quando il calcio italiano era al massimo splendore. Ma, a differenza del calcio stesso, non si è fatto ingannare: i grandi giocatori non sarebbero durati, serviva il gioco. Se la sua Udinese nei primi anni 2000 era più intensa della media, la sua Roma fu rivoluzionaria. Spalletti fu il primo a standardizzare il 4-2-3-1 come modulo. Fu anche il primo a usare il cosiddetto “falso 9”, che poi era Totti: non proprio un centrocampista co me fece Guardiola in seguito, ma una seconda punta spinta in avanti con un incursore alle spalle (Perrotta) in grado di inserirsi negli spazi vuoti. Un’anticipazione della rivoluzione che verrà nel decennio successivo. La sua prima Roma è l’unica squadra di quegli anni che potrebbe giocare nel calcio cibernetico e complesso di oggi senza sfigurare. Ma siccome arrivò seconda per tre volte, affibbiò al mister l’etichetta di primo dei perdenti. 

 

 

Ecco perché il Napoli è una rivincita. Per arrivarci, Spalletti è passato dallo Zenit, unica esperienza all’estero e non a caso in un calcio minore, di nuovo dalla Roma e dall’Inter. Purgatori. E naturalmente sono stati sottovaluti i risultati ottenuti con tutte e tre: Luciano trasforma la squadra russa in una realtà continentale, riesuma i giallorossi dalle ceneri e non vince lo scudetto solo per lo strapotere juventino, riporta in Champions League i nerazzurri dopo annidi oblio. Si vede che Spalletti viene da lontano, dal calcio minore, dalla provincia. Dall’Empoli e dalla serie C, fin su alla serie A e alla Champions con le sue forze, facendo l’«autostop», come dice lui. Si vede perché non si è mai fatto trascinare dalle squadre che ha allenato ma, al contrario, ha dovuto spingerle oltre il loro livello. 

 

 

Come? Allenando. Nel più stretto senso del termine. In prima persona, in campo, con le scarpe da calcio ai piedi. Le ha portate in panchina per tutta la stagione. Il Napoli vince perché è stato “allenato”, nel vero senso della parola. È una formazione innovativa perché mette a sistema la ricerca dello spazio nella contemporaneità, non più tra le linee ma tra gli uomini. Di nuovo, una creatura di Spalletti che porta il calcio un po’ più in là. Solo che ora il campionato italiano è diventato un terreno fertile per gli innovatori. Quindi, per Luciano Spalletti.

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