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Michael Schumacher, la rivelazione di Giancarlo Minardi: "Perché si rifiutava di parlare italiano"

Paolo Macarti
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Dieci anni squarciati da un silenzio assordante. Quello che è caduto sopra Michael Schumacher, il campionissimo dei sette titoli mondiali vinti in F1 e fermo ai box dal 29 dicembre di dieci anni fa. Il grande campione c’è ma non c’è, non è più lui, vive nella villa di famiglia di Gland, in Svizzera, trasformata in un ospedale. Giancarlo Minardi, per anni avversario in pista con il proprio team, ricorda il grande Michael per Libero.

Minardi, sono dieci anni che Michael ha staccato i contatti con il mondo. Lei cosa provò quel giorno?
«Costernazione. Incredulità. Tristezza. Che l’incidente sulla neve fosse grave lo capimmo subito ma non si pensava a conseguenze così tragiche».

Quel giorno il mondo pensò: impossibile che un incidente così banale sia capitato proprio a lui.
«La stessa cosa che pensai anch’io. Il destino fa le carte alle nostre vite e quel giorno si è spenta la sua buona stella».

Il suo primo contatto con Michael?
«Nel 1991, sulla pista di Spa. Il team Jordan doveva sostituire in fretta Gachot. Lo fece con Michael che, senza neppure conoscere bene il tracciato e la macchina, stampò uno strabiliante 7° tempo in prova».

Quello fu l’inizio dei un’avventura meravigliosa?
«Sì. Dopo venne scelto dalla Benetton di Briatore al posto di Piquete vinse i primi due mondiali». 

Ai box ebbe la faccia tosta di litigare persino con Ayrton Senna, il faraone di quella Formula 1. 
«Michael aveva personalità, non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno». 

È stato il vero erede di Senna?
«In un certo senso sì. È entrato nel pantheon dei numeri uno, dopo Ayrton e prima di Hamilton e Verstappen». 

Che pilota era Michael? 
«In pista un vero duro come soltanto i campionissimi sanno essere. Uno meticoloso, attento all’alimentazione e alla cure del fisico. La Technogym allestì nel paddock una palestra solo per lui». 

Lei ha conosciuto anche lo Schumi privato? 
«Odiava sbagliare. Anche nelle interviste: le concedeva soltanto in inglese perché insicuro del proprio italiano». 

Mai visto sbracare? 
«Una volta sola, dopo la conquista di un mondiale con la Ferrari, alzò il gomito. Ma il giorno dopo era già perfetto». 

Il suo Schumacher segreto? 
«Michael calciatore. Organizzavo partite con la nazionale piloti per scopi benefici e, una sera, vennero tutti a Faenza per un incontro contro la nazionale cantanti. Lui volle giocare tutti i 90 minuti. E segnò».

Alla Ferrari disegnò il grande capolavoro? 
«Sì. Montezemolo gli aveva costruito attorno la squadra perfetta. Michael aggiunse l’enorme talento che madre natura gli aveva concesso e vinse». 

Nel 2006 si ritirò, poi tornò in pista con la Mercedes nel 2010, ormai 42enne. Un errore? 
«L’errore lo fece durante quella pausa. Si mise a correre con le moto e cadde. Però l’adrenalina delle corse lo portò a tornare in F1. Ma non era più il Michael di prima». 

Quando legge che attorno alla villa di Gland pullulano fotografi e giornalisti che inseguono uno scoop, cosa pensa? 
«Che questo è soltanto sciacallaggio. Lasciate in pace il grande campione. Dopo tanta sfortuna non si merita una vigliaccheria simile».

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