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Pioli e Mourinho, una vita da precari: cosa devono imparare da Inzaghi

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Claudio Savelli
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C’era una volta un mondo in cui gli allenatori non potevano essere precari perché il progetto sarebbe saltato in aria. Un mondo in cui non si poteva lasciare un tecnico in scadenza di contratto perché sarebbe stato delegittimato. Un mondo in cui le società si prodigavano per difendere i loro mister in pubblico anche se erano già virtualmente esonerati per tenere tutti buoni. Quel mondo non esiste più. Nel calcio contemporaneo povero di soldi, anche gli allenatori con uno o più tituli in bacheca sono precari. Vedi Pioli e Mourinho che hanno una prospettiva comune (l’addio) ma due diversi modi di viverla. Il rossonero lavora per convincere la società nonostante abbia lo stipendio garantito fino al 2025 perché dai tifosi è già stato virtualmente esonerato in favore di Antonio Conte, da ingaggiare prima che lo faccia qualcun altro. Il portoghese, al contrario del collega, è amato da oltre metà del pubblico romanista nonostante la sequenza di prestazioni scadenti e il racconto distopico sul valore della rosa giallorossa, ma è già stato virtualmente licenziato dai Friedkin (avessero voluto rinnovare il contratto, l’avrebbero già fatto).

Come gira il mondo del calcio. Anni fa c’era la coda alla porta di Mourinho e lui se ne andava prima della scadenza dei contratti, lasciando i dirigenti di stucco e tifosi con il cuore spezzato. Ora è lui a chiedere, quasi pregando, il rinnovo, forse perché a bussare sono solo club arabi o nazionali, ovvero il prepensionamento del pallone. Il comportamento dei Friedkin un tempo sarebbe stato un sacrilegio, ora è una sacrosanta strategia di fronte non tanto a risultati mediocri, ad uno zero assoluto sul piano del gioco e ad una sceneggiata perpetua che sta facendo vacillare anche i più convinti giallorossi mouriniani.

 

 



Le proprietà si comportano in modo strano per i canoni del calcio italiano, non per quelli dell’imprenditoria sportiva. Sono americani, imprenditori-padroni che agiscono secondo convenienza, non secondo i sentimenti. Quella rossonera si presenta negli spogliatoi prima della sfida alla Roma con Cardinale e Ibrahimovic per un discorso motivazionale, in teoria compito dell’allenatore. Quella giallorossa è sparita, come se si volesse allontanare fisicamente dai discorsi di Mourinho. Nemmeno l’addio di Tiago Pinto è stato spiegato. Sembrano entrambe in attesa della fine della stagione per cambiare guide tecniche, a meno di colpi di scena su Mourinho. Sia il Milan (altalenante) sia la Roma (involuta) sembrano ad un punto fermo, incapaci di migliorare, e questo stallo porta sempre al cambio di guida tecnica. Poi c’è chi riesce a risorgere dalle proprie ceneri come Allegri e Inzaghi, rivali scudetto, che non più tardi di un anno fa erano criticati e precari. Quando Max (domani sfida al Sassuolo) ha smesso di fare uno show mouriniano, è ripartito. Mentre Simone (venerdì la semifinale di Supercoppa contro la Lazio) è naturalmente predisposto all’autocritica: senza vittimismo né fastidio, ha tollerato il momento di difficoltà ed è cresciuto, arrivando a una delle migliori proposte di gioco in Europa. Silenzio e lavoro, insomma. Cose normali? Tutt’altro. 

 

 

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