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Parigi 2024, l'atleta afgana Manizha Talash viene espulsa per la scritta sulla schiena

Nicoletta Orlandi Posti
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Quando la libertà di parola viene soffocata, l'unica via per dar voce al dissenso rimane scrivere. Gli artisti lasciano messaggi sui muri delle città come se fossero opere d'arte; Gli atleti sul tessuto delle magliette che indossano o sulle bandiere che sventolano. Questo è il contesto in cui si inserisce la squalifica dell'atleta afghana della nuova disciplina olimpica la Breaking, esclusa dalle gare dalle Olimpiadi di Parigi 2024 per aver mostrato il messaggio “Free Afghan Women” durante la gara. Si tratta di Manizha Talash, nata ventuno anni fa a Kabul, costretta a fuggire con il ritorno al potere dei talebani e arrivata a Parigi insieme alla Squadra dei Rifugiati, che ha scelto di fare un gesto di protesta simbolico che ha catturato l’attenzione internazionale. L'atleta infatti si è tolta la felpa, ha allargato le braccia e ha mostrato, appoggiato sulle sue spalle, un mantello blu con la scritta che le è costata l'allontanamento dai Giochi. Il Cio, facendo riferimento alla Regola 50 della Carta Olimpica, che vieta agli atleti di esprimere messaggi politici, religiosi o razziali durante le competizioni e le cerimonie olimpiche, ha condannato il gesto e applicato la sansione. Al contrario, l'avversaria di Talash, l'olandese India Sardjoe, ha applaudito convintamente. La gara si è conclusa con la vittoria per tre round a zero di quest'ultima, ponendo fine all'avventura olimpica della ventunenne afghana. Ma il suo l'ha fatto.

 

Le ragioni del gesto di Manizha sono radicate in una realtà tragica in cui è sprofondato il suo Paese: il regime talebano ha cancellato i diritti delle donne, impedendo loro l'accesso all'istruzione, al lavoro, alla vita pubblica e persino allo sport. Talash infatti ha potuto partecipare alle Olimpiadi perché a livello internazionale viene riconosciuto il "Comitato Olimpico Afghano in esilio" che ha selezionato sei atleti per rappresentare il Paese. I talebani, che hanno istituito un proprio comitato sportivo (valido solo all’interno dell’Afghanistan), hanno invece riconosciuto solo tre atleti uomini, poiché in Afghanistan la partecipazione sportiva delle donne è vietata. In un contesto in cui la voce delle donne è stata cancellata, il messaggio di Talash è diventato un grido di dolore e di resistenza, un atto di coraggio che non può essere ignorato. 

 

Pochi giorni prima di Talash, un’altra atleta afghana rifugiata in Australia dal 2021, Kimia Yousofi ha gareggiato nei preliminari dei 100 metri femminili di atletica, attirando l’attenzione per il un messaggio che ha scritto sul retro della sua pettorina: "Istruzione, sport, i nostri diritti". Nonostante il suo tempo di 13,42 secondi fosse lontano dai record mondiali, la sua protesta contro le restrizioni imposte alle donne afghane dal regime talebano ha fatto il giro del mondo. “Mi sento responsabile per le ragazze afghane perché non possono parlare", ha dichiarato Yousofi dopo la gara. "Non sono una persona politica, ma faccio ciò che ritengo giusto. Posso parlare con i media ed essere la voce delle ragazze afghane, esprimendo il loro desiderio di diritti fondamentali, istruzione e sport. Non mollate. Non lasciate che siano altri a decidere per voi. Cercate le vostre opportunità, e poi usatele”.

 

 

 

Talash e Yousofi non sono le prime atleta a usare la visibilità per una causa politica e sociale. Nel 1968, Tommie Smith e John Carlos, con i pugni alzati sul podio olimpico, protestarono contro il razzismo negli Stati Uniti, mostrando simbolicamente il guanto nero della lotta per i diritti civili. Più recentemente LeBron James durante gli Nba del 2014 indossò una maglietta con la scritta "I Can't Breathe" in onore di Eric Garner, morto per mano della polizia. E ancora: nel 2021, la calciatrice norvegese Ada Hegerberg, in risposta alle disparità di genere nel calcio, indossò una maglietta con la scritta "Stop sexism in football" durante una cerimonia di premiazione. Inoltre, le calciatrici brasiliane Marta Vieira da Silva e Ashlyn Harris hanno usato i loro scarpini e magliette per promuovere l'uguaglianza di genere e i diritti LGBTQ+. Questi gesti, spesso controversi, dimostrano che lo sport non è mai stato davvero neutrale. Gli atleti, consapevoli del potere delle loro azioni e della visibilità globale, continuano a utilizzare il loro corpo e la loro immagine per sfidare l'ingiustizia, anche a rischio di sanzioni. E mentre il mondo osserva, questi messaggi silenziosi scritti sui tessuti diventano parte della storia, non solo dello sport, ma della lotta per i diritti umani.

 

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