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Massimo Moratti, lo sfogo: "Bilanci, dati e troppe partite. Com'è è triste il nuovo calcio"

Pasquale Guarro
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«Considero la partita contro il Milan un promemoria utile a ricordare quanto pericoloso e imprevedibile sia il calcio. Un avvenimento che non mi dà l’idea di aver cambiato le forze in campo. Assolutamente». Massimo Moratti è sereno, ci accoglie nel suo ufficio con il garbo e con il sorriso di sempre, come al solito preoccupandosi di mettere i presenti a proprio agio, prima di ogni altra cosa. Un’attitudine del cuore, prima ancora che un gesto suggerito dalla buona educazione.

Ha già digerito le scorie di questo derby?
«Non me lo aspettavo e credo non se lo aspettasse nessuno neanche tra giocatori, società e tifosi. Il Milan ha meritato giocando una buona partita, ma questa sconfitta può avere per l’Inter anche una valenza positiva».

Da quale punto di vista?
«Siamo a inizio stagione, non è gravissimo lasciare qualche punto e la sconfitta nel derby può porre la squadra nella condizione di comprendere quale sia la giusta mentalità da far propria quando si raggiungono certi livelli».

Nessun dramma?
«La squadra c’è, è fortissima e anche l’allenatore è bravissimo. Lo hanno dimostrato tre giorni prima del derby, a Manchester. Non c’è da demoralizzarsi, nella maniera più assoluta, a patto che però serva da lezione. Il calcio non ti mette mai nelle condizioni di essere sicuro del risultato».

Lei ha avuto tanti campioni, cosa diceva loro nei momenti di difficoltà e cosa direbbe a Lautaro oggi?
«Lautaro è un ragazzo serissimo, io gli direi solo di togliersi di dosso la preoccupazione di quello che è un momento casuale e transitorio. Se ne fa un complesso rischia una condizione di difficoltà e maggiore crisi. Giochi rilassato e contento, come sa fare».

A proposito di giocare, qualche calciatore inizia a essere preoccupato da certi ritmi. Lei cosa ne pensa?
«Penso che si giochi troppo, quest’anno si aggiunge anche il Mondiale per Club a una serie di competizioni già interminabili. Diventa un tour de force difficile e pericoloso, e anche da tifoso vi dico che non ci sono poi tutti questi vantaggi».

Troppa offerta?
«Adesso siamo abituati a vedere una partita al giorno, per cui ci disperiamo quando non ce ne sono. Ma ormai non si riesce neanche più a guardare una gara per intero che si è già inconsciamente proiettati a pensare a cosa ci sarà domani. Non ci sono più né la curiosità né l’attesa, stanno venendo meno tutti quei fattori che in passato hanno regalato emozioni, anche molto forti, a centinaia di migliaia di tifosi. C’è solo la soddisfazione di avere ogni giorno una partita, tutto viene accorciato e capita, come per esempio è capitato all’Inter, di trovarsi nell’incredibile condizione di passare da squadra più forte al mondo, dopo la super prestazione col City, a quella più debole, dopo la sconfitta col Milan. Fa ridere».

Alla lunga tutto questo sarà la rovina del calcio?
«È quasi sempre così, quando si esagera con qualcosa dopo finisce per mangiarsi da sola. E poi sembra tutto scritto».

Cosa intende?
«Il calcio sta diventando troppo meccanizzato, gli stessi calciatori si concentrano sul 3-5-2, sul 4-3-3, sembrano applicarsi più su queste dinamiche che sulla vecchia idea che invece bisognerebbe prima sapere usare i propri piedi in termini meravigliosi per sfiorare e giocare la palla come si vuole, sentirla come un oggetto che più tratti bene e più ti restituisce qualcosa di splendido e sorprendente. E poi capita sempre più raramente di stupirsi».

Le manca qualcosa?
«Era bello scoprire giorno per giorno le caratteristiche di un calciatore, consumare le notti osservandone le caratteristiche in videocassetta e provare a immaginarselo in campo, cercare di intuirne le potenzialità. Adesso arrivano e sai già tutto di tutti. Visti e rivisti, tranne qualche caso sporadico».

Qualcuno di recente ha catturato la sua attenzione?
«Nei giorni scorsi mi è capitato di vedere Urbanski, sono rimasto colpito dal suo talento, mi sembra davvero bravo».

Senza volerlo siamo arrivati al calciomercato, materia che questa estate ha diviso i tifosi dell’Inter. Perfetto per alcuni, ridotto per altri: lei tra quali si schiera?
«Non si può fare a meno di considerare il punto di partenza: l’Inter partiva da una rosa che ha vinto la seconda stella, giocando anche molto bene».

Mi sta dicendo che le è piaciuto il mercato?
«L’Inter ha almeno 18 calciatori in grado di giocare ad altissimo livello e altri sono stati acquistati, compreso Taremi che reputo davvero molto bravo. Sotto certi aspetti mi è sembrata una campagna acquisti perfetta, insomma, c’erano già squadra, allenatore e impostazione. A buona ragione non hanno ravvisato l’obbligo di inserire troppe novità. Poi si ragiona sul livello e anche in questo caso devo dire che quello dell’Inter è quasi al massimo per la Serie A, mentre bisognerà vedere se sarà abbastanza anche a livello internazionale per poter vincere: un conto è arrivare in finale, altra cosa è conquistare una Coppa».

Ha notato che oggigiorno i tifosi si interessano anche alle finanze del club?
«È vero, adesso danno anche un giudizio sull’economia della società, prima non è mai fregato a nessuno». (Ride).

Ai suoi tempi era più difficile, si pretendeva di più.
«Sono stato io ad abituarli così, era il mio modo di intendere il ruolo. Non è colpa loro».

Ci sono famiglie che resistono ai fondi e la prendono come esempio. Si è pentito di aver venduto in fretta?
«No, anzi, penso di aver venduto tardi. 18 anni sono tanti. Poi l’ambizione dell’Inter è diversa rispetto a quella di altre società. La volontà è quella di competere sempre al massimo e questo sentimento ti porta automaticamente a sovvenzionare generosamente il club».

Per questo ha venduto?
«Sì. Non avrei potuto fare diversamente perché sono tifoso anche io e sarebbe stato troppo difficile per me mettermi sul piano di una amministrazione mirata al risparmio. Mi sono tenuto le mie perdite e la società non ne ha sofferto, ma andando avanti sarebbe stato molto più difficile per me».

Le chiedo un gioco difficilissimo: mi scrive l’undici ideale mescolando la Grande Inter di Herrera e l’Inter del Triplete di Mourinho?
«Troppo difficile, anche per una questione di riconoscenza verso i ragazzi che mi hanno fatto vincere il Triplete. Poi come faccio a tener fuori anche la bellissima Inter di Ronaldo, Djorkaeff, Zamorano, Baggio. Calciatori fenomenali che hanno vinto solo una Coppa Uefa, ma quanto a potenziale...».

Questo è un dribbling...
«Ronaldo non puoi toglierlo da nessuna parte perché è stato il calciatore più grande che abbia avuto l’Inter, quindi una volta che metti lui poi diventa difficile fare un discorso tra quelle due Inter. Però Picchi lo metto perché era fantastico, era intelligente, faceva funzionare tutto l’impianto. Con lui anche Facchetti e Zanetti».

Chi tra Jair e Maicon?
«Di Jair ho un ricordo meraviglioso, fu talmente sorprendente da riempire la fantasia e la speranza di ogni tifoso. Speranza che completò con i successi sul campo. Però anche Maicon... Era solido, forte, il suo carattere è stato determinante per vincere il Triplete. Non è facile».

Se lo ricorda il passaggio da Inter a Grande Inter?
«Le posso dire che vincemmo tutto quando decidemmo di alleggerirci dal punto di vista fisico. Prima avevamo Hitchens come centravanti, lo avevamo preso dall’Aston Villa ed era fisicamente fortissimo come non so che cosa. A centrocampo c’era Lindskog, che esaltava San Siro con quel suo modo troneggiante di avanzare palla al piede partendo da metà campo. Virammo verso il talento con i vari Mazzola e Jair e vincemmo tutto».

Anche Suarez non brillava certo per fisicità...
«Arrivava dopo Lindskog e alla prima partita quasi corremmo il rischio di non vederlo, tanto avevamo negli occhi la prestanza dello svedese. Non vedavamo Suarez perché era ovunque, in tutte le zone di campo, dappertutto e continuava a correre a prender palla e recapitarla dall’altro lato del campo, a 50 metri con un solo tocco. Di colpo ci siamo abituati a capire che lì a centrocampo il nostro gioco veniva fuori dalla classe, dall’intuito e dalle qualità di quel giocatore. Mario Corso, che era un genio, trovò in Suarez il compagno perfetto. Due calciatori moderni che non ho mai più rivisto in nessun’altra squadra, nonostante alcuni di gran classe».

Mai nessuno l’ha più entusiasmata così?
«Ogni calciatore ha avuto le qualità per entusiasmarmi, non posso dimenticare Cambiasso, un centrocampista fenomenale. Così come Sneijder, che ha moltiplicato la velocità di quella squadra. Ma quei due lì sono i due più grandi centrocampisti che io abbia mai visto e conservo una loro dedica dolcissima che mi hanno regalato ancor prima che diventassi presidente».

Tornando all’Inter attuale, pensa possa vincere lo scudetto o li vede assuefatti dalla seconda stella?
«Con la vittoria si acquisisce una maggiore sicurezza che in certe partite può aiutarti e in altre può risultare un’ancora che ti trascina giù. Ma obiettivamente l’Inter è forte, ha 24 calciatori forti e un allenatore molto bravo. Va certamente considerata questa nuova formula della Champions, ma se riesce a resistere bene dal punto di vista fisico a questo incredibile numero di partite che abbiamo davanti, ci sono tutte le qualità per vincere ancora».

Qual è il ricordo più bello che si porta dietro in questo bellissimo racconto di una vita legata all’Inter?
«Ai primi posti c’è l’affetto delle persone, il ricordo di quei momenti in cui le cose andavano così così e mi sono trovato sorretto, aiutato e benvoluto dai tifosi. Mi hanno fatto sentire parte integrante di qualcosa. Poi rimangono indelebili Vienna e Madrid. Quel 22 maggio la capitale spagnola era bellissima, una giornata di sole meravigliosa e poi quella partita andata via liscia così...».

Mi giro intorno e vedo Inter ovunque, in ogni cornice. Quale foto tiene abbracciata a sé più di ogni altra?
«Quella con il mio papà. Sempre».

 

 

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